Raccontare Gesù secondo i quattro Vangeli

 
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di Roberto Vignolo
in: G. Angelini (cur.), La figura di Gesù nella predicazione della Chiesa (Disputatio 17), ed. Glossa, Milano 2005, pp. 155-195.
 
 
Istanze consistenti e preziose congiunture concorrono, e quasi obbligano, a reimprimere nuovo impulso per narrare Gesù, in termini non solo di aggiustamento di contenuti e strategie, ma più radicalmente regolativi e fondativi, che forniscano cioè le condizioni effettive, originarie e attuali, del racconto cristologico come atto istitutivo della fede predicata. Il presente intervento si concentra proprio su questo aspetto, inquadrato dal punto di vista biblico: su quali basi e a quali condizioni impegnarci a narrare Gesù?
 
1.        L’Evangelo e i Vangeli: la singolare anomalia canonica dell’evangelo uno e quadriforme
 
La prima, fondamentale condizione sarà quella di una ritrovata – reinventata – fedeltà alla forma intrinseca dello euagghelion come annuncio e come racconto canonico, recuperandone la più vibrata sintonia. Sull’euagghelion neotestamentario, inteso vuoi nel senso kerygmatico (orale) più originario, come pure in quello successivamente presto applicato alla sua forma scritta quadriforme, converrà che la memoria cristiana e la teologia biblica non smettano mai di tornare a misurarsi. Riferito all’annuncio di Gesù predicante il Regno di Dio avvicinato (Mc 1,14-15 e par), poi a quello apostolico, che proclama come euagghelion morte e risurrezione di Gesù quale Signore e Cristo, questo termine, nella koinè di norma declinato in un enfatico plurale propagandistico dei molteplici, eppur sempre limitati benefici vantati dalla politica dei signori di questo mondo sbandierati appunto come euagghelia,«buone notizie»[1], viene nell’uso neotestamentario asciugato in un netto e provocatorio singulare tantum[2], a diretta espressione della singolarità dell’evento escatologico (coerentemente attestato dalle diverse voci della chiesa primitiva)[3].
Anche la più tardiva applicazione di euagghelion al racconto scritto di Gesù, e la conseguente denominazione plurale de «i (quattro) vangeli» spiccano non solo per differenziazione rispetto all’uso del tempo[4], ma anche nei più generali termini di comparatismo religionistico, come appunto non sfuggì a A. von Harnack, e di recente a giusto titolo viene rievidenziato da M. Hengel:
il fatto che la Chiesa possieda quattro vangeli di uguale valore è un fatto cui ci si è tanto abituati lungo un passato di 1700 anni che solo raramente sollecita anche il soggetto più riflessivo a pensarci su. Tuttavia è un fatto estremamente paradossale... Tutte le analogie nella storia delle religioni cui possiamo riferirci per scritti di uguale significato dei Vangeli suggeriscono che un libro è stato conservato e non molti dello stesso tipo, e che nella liturgia si legge da un solo libro[5].
 
Diversa è la situazione della Torah d’Israele con i suoi cinque rotoli, che si presenta come «libro» portatore di una vicenda successiva, secondo una sequenza rigorosamente obbligata dei libri stessi (una vicenda che prosegue nei libri dei profeti anteriori, da Gs a 2Re). I vangeli che noi leggiamo oggi abitualmente secondo la sequenza Mt-Mc-Lc-Gv, conobbero invece ordini diversi nel momento in cui furono fatti circolare rilegati assieme nel formato di un unico codice, la grande novità editoriale dell’epoca, prontamente assunta dalla trasmissione cristiana[6].
Secondo la consapevolezza invalsa tutto sommato relativamente presto nella chiesa antica a partire dalla pubblicazione del più antico vangelo di Marco, di fatto e di diritto un unico racconto di Gesù non poteva rendere sufficientemente conto dell’evento cristologico. Varrà in modo speciale, in certo qual senso a fortiori per la scrittura cristologica, nell’arco di pochi decenni tutta concentrata a ridosso di Gesù di Nazareth costituito Signore quel principio da Paul Beauchamp battezzato – con azzeccata cacofonia – come deuterosico, consistente nell’incessante ripresa e rilettura narrativa con cui la tradizione di Israele diede vita al proprio canone yahwistico, in tutte e tre le sue partizioni (Torah, Nebiim, Ketubim) intimamente costituito e ultimamente incorniciato dal gesto di tornare a narrare il già narrato, reintegrando così entro profili precedentemente acquisiti ulteriori filoni di tradizione lasciati in ombra, a loro volta capaci di instaurare nuovi orizzonti di comprensione della traditio recepta.
Questa analogia tra il vangelo quadriforme e la Torah d’Israele (ulteriormente sostenuta dalla comune posizione di apertura, giocata da entrambi nelle due rispettive raccolte canoniche proprio in quanto racconti fondatori)[7], per quanto ineccepibile non può cancellare la loro non meno significativa differenza. Infatti le molteplici tradizioni concorrenti a istituire l’insieme dei cinque libri mosaici, pur nel rispetto del pluralismo di provenienza, per cui ogni tradizione integrata mantiene la propria fin spigolosa differenza (più o meno trasparente), hanno tuttavia subìto un loro allineamento entro un’unica sequenza e cornice narrativa scandita dall’immodificabile successione dei cinque rotoli. Molto singolarmente invece questo processo di reductio ad unum è stato risparmiato al vangelo canonico quadriforme relativo a Gesù, secondo un modulo di attestazione ispirantesi ad una narratio difficilior, irta di problemi in certo qual modo più complessi rispetto all’unica torah mosaica, e comunque segnata da un paradigma ermeneutico ancor più spregiudicato circa il rapporto tra divina rivelazione e la sua attestazione scritta. Forse rappresenta «un precario equilibrio tra una molteplicità impossibile a gestire da un lato, e un singolo vangelo autoconsistente dall’altro»[8].
Per quanto relativo ad un evento di sua natura non univocamente enarrabile, tuttavia non qualunque racconto intorno a Gesù poteva pretendere di darne, se non esaustiva, almeno adeguata testimonianza. Solo un vangelo riconoscibile come canonico (fedele cioè alla memoria apostolica, passibile di proclamazione liturgica e di accettazione ecclesiale effettiva), insieme agli altri vangeli e scritti canonici, nella logica di una intertestualità di compimento[9]. Con il vangelo quadriforme la scelta della Chiesa si orientò nel senso di una quarta, più sofisticata alternativa rispetto a soluzioni certamente assai più semplificatrici, e cioè, per così dire, equidistante
a) sia rispetto all’univocità esclusiva di tipo settario (Marcione, ebioniti, valentiniani),
b) sia rispetto all’armonizzazione (di Taziano e simili)[10], anch’essa mortificatrice del pluralismo canonico;
c) sia, infine, alla proliferazione pluralistica indiscriminata (si pensi soprattutto alle derive gnostiche, a loro volta non meno settarie).
Avremo modo di ritornare su questo tema, in particolare sul passaggio dal vangelo kerygmatico a quello narrativo. Per il momento basti osservare come, per mettere a tema la questione del narrare Gesù, non si potrà fare a meno di ricollocarsi consapevolmente in questo singolare alveo, lungo il quale il vangelo cristiano scorre come traditio perennis lungo la storia fino alle estremità della terra (cfr. 2Ts 3,1; Mc 13,10; 14,9; Mt 28,16-20; Lc 24,46-47; At 1,8).
L’impegno a ragionare intorno al senso del vangelo quadriforme s’impone tanto più in una fase ecclesiale epocale che ha riguadagnato una lucidità di coscienza e la frequentazione di un’esperienza. Se la prima consiste nella consapevolezza che – senza escludere appello e argomentazione – «il messaggio cristiano è essenzialmente narratio»[11], la seconda riguarda la liturgia uscita dal Vaticano II che – per una decisione ancora da esplorare e sfruttare non solo in tutte le sue ragionate, effettive motivazioni a monte, ma soprattutto nelle sue probabilmente perfin più ricche potenziali implicazioni a valle – restituisce al popolo di Dio l’ascolto polifonico del Vangelo quadriforme, scandito, per la liturgia domenicale, secondo un ciclo triennale che ripropone di seguito Matteo (anno A), Marco (anno B), e Luca (anno C), con il Quarto Vangelo disseminato a diverso titolo per ogni ciclo (per le letture feriali invece si susseguono lungo l’anno nell’ordine Mc, Mt, Lc). Di più: per quanto concerne la proclamazione liturgica, anzi eucaristica del Vangelo, quando, a conclusione di ogni singola pericope annunciata si propone la formula «Parola del Signore», ribadendo con forza che qualunque passo evangelico risulta essere sempre un atto linguistico (locutorio, interlocutorio, illocutorio e perlocutorio) del Gesù Signore in persona, il culto della Chiesa agisce conformemente alla convinzione ormai da lungo tempo acquisita in esegesi per cui ogni singola pericope evangelica è narrata e proclamata dal racconto evangelico nell’ottica e a partire dalla risurrezione, al punto che qualunque singolo episodio evangelico ne fornisce più o meno direttamente un annuncio. Il primato misterico della fede celebrata (lex orandi) rispetto alla fede confessata (lex credendi) incrocia qui felicemente il principio di rivelazione e il correlativo primato dell’ascolto della Parola (DV 1) praticabile per il medium della testimonianza scritturistica, quale rivelazione canonicamente attestata e ispirata, nonché la consapevolezza della moderna esegesi della risurrezione di Gesù come punto di vista prospettico sotto cui inquadrare l’intera sua vita.
 
 
2. Il vangelo quadriforme nell’odierno recupero narrativo
 
2.1. Nell’ambito antropologico: la riscoperta del racconto
Questo largo crocevia di grazia chiede di essere frequentato con rinnovata cura, tanto più poi in quanto generosamente supportato dal risvolto culturale del presente kairòs, che vede un Occidente oggi perfino ammaliato dalla riscoperta del racconto come forma antropologica universale fondativa di istanza identitaria e memoriale (personale e collettiva) nel tempo. Come ci ha istruiti – primo fra tutti – il facondo e compianto Paul Ricœur, là dove sono temporalità e istanza identitaria, ivi c’è racconto, e viceversa[12]. Raccontare una storia è rispondere alla domanda identitaria di un chi?, sottoposto alla sfida del tempo, in cui permane socialmente identificato (come idem), pur incorporando tutte le proprie improrogabili, imprevedibili trasformazioni (che ne fanno un ipse,un Sé come un Altro). Ivi si afferma l’esigenza di ritrovare il proprio «cerchio narrativo» (confronto con altre storie, rilettura incessante della propria alla luce di nuovi eventi), ritagliato comunque sempre all’ombra di grandi narrazioni per cui la decostruttiva sensibilità postmoderna certo non simpatizza, pur non sapendo assolutamente farne a meno, anche a costo di sminuzzarle a proprio più restrittivo uso e consumo. Sempre entro questo orizzonte, per riferimento all’intrigo, vera anima di ogni racconto, si è oggi chiarificato pure il nesso intrinseco di fatto storico, senso e interpretazione, che uno storicismo certamente datato e nondimeno per certi aspetti oltremisura longevo, prova e riprova a scorporare, disattendendo che il fatto esiste solo nell’intrigo, cioè saldamente reticolato ad altri fatti, viceversa è un sacco vuoto, che non può stare in piedi (la più asciutta cronologia e cronistoria veicolano ingentissimi tassi di senso, e vogliono rispettosa, non arbitraria interpretazione). Da menzionare poi quell’aspetto particolarmente cruciale per il racconto evangelico, il nesso cioè sempre più intrinseco e ancora in larga parte da esplorare, tra scoprire e inventare, tra storiografia e romanzo, un collegamento di cui responsabile è l’immaginazione narrativa che presiede ad ogni ordito, ad ogni messa in intrigo.
Senza ovviamente ambire qui nemmeno ad una miniteoria del racconto, non ci converrà comunque eludere la domanda elementare: cosa fa di un racconto un racconto?(preludio ad un altra successiva: cosa fa di un vangelo un vangelo?), rispondendovi con una definizione descrittiva: il racconto è quella forma di produzione/comunicazione artistica con cui un autore affida all’istanza di una voce narrante un intreccio di eventi e un conflitto di personaggi ambedue esistenzialmente coinvolgenti i propri destinatari (attuali e virtuali); i quali potranno così misurarsi (immaginativamente, praticamente, intellettivamente) sulla configurazione di diversi punti di vista intrecciata dal racconto stesso.A implemento della nota teoria di Ricœur, che tripartisce l’intero orizzonte narrativo in prefigurazione (il mondo vissuto, precedente al racconto, per cui le azioni già in qualche modo ne danno una versione preliminare appuntata), configurazione (il mondo effettivamente raccontato), e rifigurazione (il mondo del lettore rimodellato a partire dal mondo del racconto, sintesi tra l’intreccio narrato e il proprio intrigo esistenziale vissuto),varrà qui la pena spendere un breve apprezzamento per il secondo e terzo momento, e cioè, rispettivamente, per la configurazione in intrigo (cioè per il profilo artistico e compositivo del racconto), e per la rifigurazione come atto di lettura (ovvero il profilo ricettivo della sua comunicazione artistica, sollecitante una risposta al tempo stesso estetica ed etica).In merito, valgano le seguenti puntualizzazioni.
 
a) Piuttosto che come generica «sintesi dell’eterogeneo»[13], la configurazione narrativa che fa da perno centrale nella suddetta tripartizione, avrà qualcosa da guadagnare nel momento in cui venga invece meglio specificata come conflitto narrativo tra differenti punti di vista, un profilo questo più qualificante e pertinente all’eterogeneità messa in atto da qualunque intreccio[14]. Come considerazione intrinseca al principio stesso per cui dove c’è racconto, c’è intreccio, è quella per cui quest’ultimo (in quanto articolazione spaziotemporale di eventi) sussiste solo in quanto si propone come il precipitato, il correlato oggettivo di diversi punti di vista coesistenti, rispettivamente (riprendendo una ben nota teoria)[15] relativi a spazio, tempo, personaggi esistenti, valori normativi in concorrenza tra loro. Coincidente, e in certo qual modo esplicativa rispetto a quella di cui sopra, suona quindi pure l’equazione: dove c’è racconto, c’è conflitto (di spazi, tempi, soggetti, valori differenti), senza il quale non può istituirsi intreccio alcuno. Nella sua composizione interviene infatti non l’investimento di una qualunque e inerte eterogeneità, più o meno genialmente agglutinata in un’unica storia, bensì piuttosto il vivo, contrastato alternarsi di luoghi e tempi diversificati, di persone, atteggiamenti e idee reciprocamente concorrenziali (ovvero solidarmente cospiranti). A costituire l’intrigo è così una congerie di elementi ultimamente saldati assieme non solo dalla coerenza intrinseca della storia, ma anche dall’autorevolezza dell’unica voce narrativa, che, per quanto essa stessa potenzialmente mutevole, mantiene pur sempre una sua costante superiore postazione enunciativa metadiegetica, che rende appunto ogni storia enarrabile a chiunque ne possieda a sufficienza i codici significanti e comunicativi, quella proprietà (in qualche modo trascendentale), che la istituisce come un microfono o un altoparlante senza il quale nessuna delle voci intra- ed extradiegetiche potrebbe mai udirsi. In sintesi, qui si fa valere il principio per cui l’eterogeneità investita e unificata nella forma narrativa è di sua natura originariamente conflittuale, quale che sia il grado di soluzione dei conflitti stessi di volta in di volta offerto dal narratore. La sintesi dell’eterogeneo di cui parla Ricœur, altro non è che la sintesi di un articolato conflitto.
 
b) Conseguenza ulteriore – importante, ma disattesa – è che, forte di questa sua intrinseca conflittualità, la narrativa finisce per qualificarsi necessariamente quale arte «ineluttabilmente ironica... come nessun’altra forma letteraria»[16], appunto in ragion della ospitalità – simultanea eppur gerarchica – offerta dall’unica istanza narrativa alle molteplici e contrastanti voci, ai diversi punti di vista (verbali, spaziali, temporali, psicologici, assiologici). Questo scarto di differenze molteplici epperò unificate, tutte a diverso titolo disponibilmente accolte e animate dall’unica voce della superiore istanza narrativa, e quindi associate dalla comune cittadinanza al medesimo mondo dispiegato dal testo, istituisce un impianto nel suo insieme tutto di per se stesso sostanzialmente ironico. Il che non dipende affatto dalla misura maggiore o minore di ironia o di senso dell’umorismo di volta in volta posseduto personalmente dal narratore in questione. E nemmeno dalla concezione di ironia che si volesse privilegiare, concependola sia più tradizionalmente, cioè sia come antifrasi dichiarante il contrario di quanto il locutore intende, sia secondo la più recente teoria della citazione, che valorizza invece il punto di vista dell’enunciato, per cui l’effetto ironico risulta appunto dal trapianto di un enunciato, estrapolato da un contesto originariamente non ironico e reinnestato all’interno di un nuovo contesto (è la contaminazione a conferire appunto il valore aggiunto di ironia)[17]. In ogni caso, a prescindere da ogni ulteriore tipologia di racconto di volta in volta in gioco, ecco allora la configurazione narrativa caratterizzarsi quindi per una sua propria specifica mediazione ironica alla verità, resa manifesta attraverso la forma della denegazione (negazione della negazione)[18]. La sua percezione in fondo coincide con l’atto di lettura capace di riconoscere lungo lo sviluppo del racconto l’alternanza dialettica dei diversi punti di vista, tutti comunque unitariamente contestualizzati tra di loro entro l’unico intreccio, meglio ancora: entro l’unico universo narrativo normato da una gerarchia sua propria. Non intenderà questo discorso chiunque si contenti di pensare l’ironia secondo la concezione corriva e riduttiva, cioè semplicemente come un artifizio del discorso, uno dei tanti trucchi o espedienti letterari a discrezione del genio autoriale, e rinunci a riconoscerla piuttosto nella sua più radicale portata di dimensione perfettamente intrinseca alla grammatica e alla sintassi del narrare come tale. In concreto, cioè, bisogna riconoscere al racconto la facoltà di un congegno e di un processo di punti di vista conflittuali non solo spazio-temporalmente, ma anche assiologicamente differenziabili (più o meno rilevanti, perdenti o vincenti) rispetto all’istanza narrativa universale (trascendentale), che tutti ospita e che, comunque, agli uni come agli altri concede dignità di esistenza e parola, ugual diritto di cittadinanza nell’unico mondo narrativo (ancorché, ovviamente, non ugual merito). Oltre che di per sé, questo fattore negletto va a fortiori ribadito, anche in lungimiranza della qualità tutta propria della storia di Gesù, che a questa universale dimensione ironica narrativa offre un’attuazione di pregnanza inaudita (nient’affatto confinabile all’ambito più ristretto, poniamo, del Quarto Vangelo, volentieri, ma poco perspicacemente, rappresentato per la faccenda dell’ironia come caso anomalo a se stante). La verità è che, se mai racconto alcuno lieviterà senza ironia, a maggior ragione questo vale per una storia come quella di Gesù Nazareno, il Signore e Messia crocifisso, culminante, come ripetutamente proclama il kerygma, nella sua risurrezione quale caparra della risurrezione universale, e soprattutto quale divina, ironica denegazione del progetto mortale contro colui che da uno dei dodici fu consegnato ai suoi nemici, i capi e i sacerdoti del popolo, e da questi alla mors turpissima crucis per mano dei romani, quale preteso teorema dimostrativo di un’impossibile messianicità (per definizione incompatibile con un destino tanto oscuro):
Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete –, dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere (At 2,22-24; cfr. 3,13-16; 5,30-32; 7,51-53; 13,26-32 ).
 
c) Ulteriore apprezzamento oggi condiviso e meritevole di accentuazione, riguarda quella che Ricœur chiama rifigurazione in vista della appropriazione, riconducibile al riscoperto valore dell’atto e del soggetto della lettura, senza i quali ogni testo resterebbe cosa, oggettualità meramente inerte, impossibilitata a guadagnare la dignità di «opera». Capire è situarsi davanti al testo cui la lettura restituisce vita, anzi, al mondo del testo, non solo con la pretesa di interpretarlo, ma anche con l’umiltà di esserne interpretato, per ricevere un sé più vasto, riprogettarsi.Il risvolto d’ogni lettura sarà quindi certamente pratico. Tuttavia il passaggio a detto livello non dovrà pretendersi troppo immediato e precipitoso, privilegiando invece la mediazione fornita dall’immaginazione credente, per cui il momento del ripensarsi, del lasciarsi cogliere da nuove possibilità precede necessariamente qualunque autodeterminarsi attraverso la decisione (Ricœur contro Bultmann)[19]. Superflua qui la ripresa dell’inerenza di questa prospettiva riferita alla lettura della scrittura biblica[20].
Nell’ambito biblico-esegetico nonché teologico, non costituisce certo una novità l’articolato interesse al narrare[21], esso stesso segnato da qualche mutamento di paradigmi e di equilibri, su cui tuttavia non ci soffermeremo, se non per accennare al più specifico recupero dell’identità narrativa cristologica come termine medio tra quella storica e teologica. Tra il Gesù storico, criticamente ricostruito sulla base del vaglio delle fonti, e il Cristo della fede, annunciato in conforme fedeltà alla tradizione evangelica canonica, c’è di mezzo un Cristo raccontato (un suo attuale Sitz im Schrift), che s’impone come originario termine medio e imprescindibile interfaccia tra ricostruzione storica e speculazione teologica[22].
 
 
3. Il proprium narrativo evangelico-cristologico
 
3.1. Un passaggio cruciale: dal miniracconto kerygmatico al racconto cristologico complessivo
Lo slancio da reimprimere al «narrare Gesù» potrà fecondamente prodursi a mio sommesso avviso ricollocandoci nel cruciale passaggio dall’Evangelo ai Vangeli, e più precisamente dal kerygma pasquale centrato sinteticamente sulla morte e risurrezione di Gesù (imprescindibilmente dotato di un nucleo narrativo, di un miniracconto più o meno esplicito), al racconto più esteso dell’intero suo arco biografico intrapreso da Marco e quindi dai successivi vangeli, che, sempre nell’ottica di «trasparenza» della pasqua, riassembla coerentemente una selezione degli acta, dicta, passaJesu, cominciando dal principio della storia di Gesù (da Mc 1,1-11 fissato a partire dal suo battesimo, ma successivamente ricalibrato da Mt, Lc e Gv secondo una retrospezione sempre più radicale circa l’origine di Gesù). L’invenzione marciana del genere «vangelo» istituisce un insieme di più o meno tacite condizioni obbliganti per definirlo canonicamente (irriducibile a raccolte di detti: Vang. di Tommaso, Q, ecc.).
Prendiamo qui in considerazione quel decisivo sviluppo registrabile dal confronto tra il kerygma prepaolino di 1Cor 15,3b-5 («Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, che fu sepolto, e che è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici»), da Paolo inserito nel proprio scambio epistolare coi Corinzi, e quello rivolto dall’angelo alle donne, pellegrine impaurite al sepolcro nel racconto pasquale di Mc 16,6-7, che funge da scioglimento della storia di Gesù secondo il più antico vangelo marciano («Ma egli disse loro: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto. [16.7] Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto”»). Pur presentando una loro molto differente contestualizzazione, nonché una sequenza narrativa, e anche terminologia un po’ diversa, questi due annunci, come facilmente constatabile, condividono il medesimo intreccio di base (in gergo narratologico gli stessi «motivi legati», qui costituiti dai quattro eventi cristologici in gioco: morte, sepoltura, risurrezione e apparizione).
In effetti 1Cor 15,3b-5 offre un kerygma (altrimenti detto «formula di fede») nella forma di un efficace miniracconto, sintetico e tuttavia già più sviluppato rispetto a più antiche e brevissime formule homologiche e kerygmatiche, contente di concentrarsi più esclusivamente e puntualmente, oltre che su altri aspetti, proprio sulla morte salvifica del Messia («Cristo è morto per noi») piuttosto che sulla sua risurrezione («Dio ha risuscitato Gesù dai morti»), caratterizzandosi così per nuova combinazione, nonché maggior espansione, articolazione, tratti questi che gli conferiscono una più consistente autonomia ed una più pregnante autoevidenza[23]. Il nesso tra morte/resurrezione succedentesi in contrastata sequenza temporale è garantito, oltre che sul comune codice anticotestamentario secundum scripturas, anche dalla loro natura di eventi salvifici maggiori, confortati entrambi da un’ulteriore evento intervenente a irrefragabile riprova epistemica della morte come della risurrezione: se l’avvenuta sepoltura comprova la verità della sua morte, similmente la risurrezione risulta dalle numerose apparizioni di Gesù ai suoi. 1Cor 15,3-5 racconta mirabilmente la vicenda di Gesù come storia della sua libertà, affermata come morte volontaria, secondo il modello di quella espiatrice del martire (2Mac 7) e del servo del Signore (Is 53) obbediente alla volontà di Dio. Il suo senso contrasta con la sua più immediata recezione, che subito ne archivia ogni valore ed effetto semplicemente concedendo sepoltura a Gesù, e quindi considerando chiusa per sempre la sua storia. Ma, a dispetto degli umani, che a quella morte salvifica reagiscono secondo l’ovvia logica intramondana disponendo la sepoltura di qualcuno che fu grande guida per Israele[24], Dio interviene a risuscitarlo il terzo giorno secondo la sua promessa e volontà, restituendogli l’ulteriore libertà autorivelatrice a Kefa e ai dodici. Il tutto avviene entro un quadro geograficamente asettico, privo di ogni referenzialità che non sia quella implicitamente iscritta nei codici culturali imprescindibilmente giudaici (anzi giudaico-ellenistici), e con protagonisti solo maschili, un quadro ricontestualizzato dall’apostolo in relazione all’effervescente comunità di Corinto, non troppo ben predisposta alla fede nella risurrezione universale. Insomma, abbiamo qui un vangelo e un kerygma narrativo che potremmo definire assai «eidetico», in duplice senso: in quanto presenta un nucleo di fede contenutisticamente «essenziale» e al tempo stesso (a certe condizioni) «trasparente»[25], storicizzato giusto quanto basta, e riprodotto nel nuovo contesto paolino in ordine a fondare, con la risurrezione di Gesù, la confessione della risurrezione universale dai morti dominante l’intero capitolo di 1Cor 15 (quanto al fatto e al modo, rispettivamente vv. 12-34 e 35-58).
Il medesimo kerygma viene invece in Mc 16,6-7 proposto in chiave meno rarefatta e piuttosto anamnetica, cioè ricontestualizzato con più ampia ed esplicita referenzialità storica, da cui attinge per altro migliore trasparenza. In effetti si colloca nell’ambito di una precisa e concreta memoria Jesu come scioglimento della sua vicenda, segmento conclusivo della storia terrena di Gesù, che tuttavia fa ripartire la storia del risorto coi propri discepoli secondo la sua stessa parola. Suona non a caso in bocca all’angelus interpres, che lo proclama da dentro il sepolcro inaspettatamente trovato aperto dalle donne, tutte comprese della propria pietà funebre, espressione della migliore fedeltà, tuttavia inadeguata alla reale situazione di Gesù il nazareno, il crocifisso risuscitato. Si rivolge a queste stesse protagoniste pasquali della prima ora (per probabili motivi apologetici, legati alla non validità legale della testimonianza femminile neanche menzionate in 1Cor 15,3-5), con tanto di riferimenti contestuali geografici e topologici inerenti alla storia pregressa di Gesù (il nazareno crocefisso, la Galilea, Simone, i suoi). Il kerygma dell’angelo trova poi significativo supporto dal gesto di una molto esplicita deissi (non è qui, ecco il luogo…, là lo vedrete). E assume come garanzia veridica e chiave complessiva di lettura non più le Scritture anticotestamentarie, bensì la parola stessa precedentemente pronunciata da Gesù sul destino proprio e dei discepoli (come vi ha detto: cfr. 16,7 con 14,28):
1Cor 15,3-5                                                                               Mc 16,6-7
 
v. 3 Cristo morì per i nostri peccati                      v. 6 «Voi cercate Gesù il Nazareno,
secondo le Scritture,                                     il crocifisso!
 
      v. 4 e fu sepolto,                                                  Fu risuscitato, non è qui.
     
ma è risuscitato il terzo giorno                            Ecco il luogo dove l’avevano deposto.
secondo le Scritture,
 
v. 5 e apparve a Kefa                                                v. 7 ORA andate, dite ai suoi discepoli e.
e quindi ai Dodici                                                     a Pietro che egli vi precede in Galilea.
                                                                                     lo vedrete, come vi ha detto».
 
L’idea di un vangelo apostolico da Paolo ricevuto e ritrasmesso ai Corinti (1Cor 15,1-3a), è ben noto a Mc (8,35; 10,29; 13,10; 14,9), per il quale tuttavia esso in germe è già precontenuto in quel vangelo di Dio/del regno proclamato da Gesù (1,14-15), che, annunciando inoltre la propria stessa pasqua (8,31; 9,31; 10,33ss.) come condizione per il regno (9,1; 14,25), aveva quindi proclamato lui per primo il futuro vangelo apostolico postpasquale a proprio riguardo. Per Mc l’inizio (in senso tanto cronologico quanto sostanziale) dell’evangelo (Mc 1,1) che già corre per il mondo (13,10; 14,9) sta embrionalmente nella vicenda e annuncio del Gesù terreno, nonché nel suo racconto. Mc restituisce al kerygma pasquale il più consistente sfondo anamnetico della missione storica di Gesù, circostanziandola in chiave di una ricerca spaziale-temporale, cioè inquadrata nei termini di storia dei propri stessi effetti («voi cercate Gesù...»), per cui Gesù, anche dopo la sua morte esecrabile, rimane oggetto di costante ricerca. La sua storia è, dall’inizio alla fine, la storia di un ricercato, un punto di vista anche di Mt Lc e Gv, determinante la forma narrativa del vangelo, irriducibile allo scarno telaio narrativo delle formule kerygmatiche e homologiche primitive, impossibilitate a dotarsi di questa più puntuale cornice.
Questo passaggio s’impone. Senza il recupero memoriale (analitico-sintetico) della sua storia, con relativa cornice spaziotemporale, e con menzione dei suoi effettivi protagonisti quale supporto della sua pasqua, Gesù infatti per un verso perderebbe la propria singolarità, scadendo al rango di una figura mitologica, perfettamente fungibile e scambiabile. La sua stessa vicenda pasquale si dissolverebbe in una generica, universale cifra di morte e risurrezione, ovvero in quella di un’umana vicenda e di uno schema salvifico attribuibile a chicchessia. Il suo nucleo (eidos) di evento escatologico di rivelazione salvifica perderebbe sostanza, slegandosi dal proprio qualificante supporto storico originario. Per altro verso la sua figura (di nuovo, il proprio eidos) perderebbe altresì in evidenza, e non se ne precepirebbe più l’intrinseca plausibile verità, dal momento che l’estrema sintesi homologico-kerygmatica non può godere dell’ampiezza di cornice spaziotemporale e della forza rivelatrice che il racconto evangelico appunto riesce ad attingere. Essa non ha alcuna autonomia, ma prende senso tanto quanto è la punta di un iceberg necessariamente ricontestualizzabile nel vissuto delle comunità attestato dalle lettere, dove si coltiva la memoria Jesu alla luce dell’esperienza del risorto, ovvero in quello di Gesù stesso, ripensato secondo la sua propria vicenda, sempre all’interno di una vita ecclesiale. Ci vuole insomma il recupero esplicito dell’humus e entroterra originario della homologhia cristologica, e cioè appunto la memoria di Gesù con allegati rispettivamente due fattori cruciali, costituiti dalla domanda cristologica esplicita (chi è Gesù?)[26], nonché dalla non meno aperta ricerca cristologica (dov’è Gesù?). Sono appunto questi due fattori che fanno la differenza specifica del racconto evangelico rispetto al kerygma e all’homologhia, i quali non sono in grado di restituirli, avendo di loro natura una cornice memoriale di più esile portata, che appunto il vangelo come racconto anamnetico si impegna ad offrire.
 
 
3.2. Istanza del vangelo narrativo: quale tipologia di racconto?
Ma in che termini i vangeli canonici raccontano la storia di Gesù? Quale è più specificamente il loro proprio narrativo? Senza riproporre qui lo status quaestionis del loro genere letterario nel senso storico-critico abituale, ricordiamo come il loro proprium stia notoriamente nel non essere riconducibili alle biografie[27], trattandosi piuttosto di testimonianze di fede prestate alla missione escatologica di Gesù Messia, Signore e Figlio di Dio, profeta del regno di Dio e Figlio dell’uomo, mediatore dello Spirito, la cui novità di restituzione narrativa si schiude una via propria, al di là dell’abituale alternativa tra il drammatico-sublime e il quotidiano-comico[28].
Ci interessa qui la loro tipologia narrativa determinabile in chiave di teoria letteraria, per cui i vangeli, non senza importanti ascendenze anticotestamentarie, possono caratterizzarsi come molto interessante forma mista, combinante due tipi di racconto, classificabili rispettivamente come racconto di rivelazione, ovvero gnoseologico, e racconto di soluzione, nel nostro caso più precisamente di ricerca.
Il racconto di rivelazione/ gnoseologico risponde alla domanda: come sia possibile riconoscere l’identità del personaggio in gioco, nel nostro caso di Gesù? Maggiormente esplicitato da Lc e Gv[29], questo profilo già opera intensamente in Mc, nel gioco, ormai pacificamente riconosciuto dall’esegesi, tra momento extradiegetico (di comunicazione privilegiata del narratore col lettore) e intradiegetico (sviluppo dell’intreccio attraverso i personaggi). A questo livello i vangeli iniziaticamente sollevano e rispondono alla domanda cristologica chi è Gesù? Chi, quando e perché sarà in grado di saperlo e dirlo correttamente?,riconducendola alla sua stessa storia, narrandola appunto come un processo di disambiguamento della controversia su di lui, e offrendone un complesso processo di veridizione, soggetto a vicende alterne dove (soprattutto in Mc) equivoci e malintesi, frustrazioni e ambiguità si alternano a più rare tappe costruttive (la figura di Gesù è riconoscibile solo entro un contesto di esperienza discepolare, quello stesso non senza problemi). Questo modello è già stato felicemente messo a frutto in teologia fondamentale[30], come pure in teologia biblica[31], che ne hanno mostrato la ricaduta in termini di cammino di fede praticabile per il lettore, in tutto e per tutto omologo a quello dei contemporanei di Gesù quali sono raffigurati nella scrittura evangelica. Decisivo in merito il rapporto dei titoli cristologici ai loro contesti, locutori, destinatari narrativi (intra-/extra diegetici).
La fecondità di questa tipologia può incrementarsi considerandone nel caso dei vangeli la combinazione/integrazione con un secondo modello, che fa da supporto intrinseco, costituito dalracconto di azione/soluzione(per cui, nel racconto in questione, conta quello che succede, l’effettivo scioglimento della storia). Sulla falsariga di una ricca tradizione AT[32], dai vangeli sfruttata ampiamente, la loro narrazione prende la specifica forma diracconto di ricerca, dove Gesù impegnato nella sua missione (la sua Geschichte) è contemplato per le reazioni e gli effetti che da lui derivano e ricadono sui personaggi attivati in cerca di lui.A ben vedere cercare Gesù attraversa come un filo rosso compositivo di tutti e quattro i racconti evangelici, non uno dei tanti loro possibili temi, ma vettore portante della «storia degli effetti (Wirkungsgeschichte)», rintracciabile a segnare compositivamente i segmenti narrativi maggiori comuni ai quattro vangeli, che formano l’ossatura fondamentale della storia di Gesù, secondo le comunissime categorie narrative di inizio, corpo centrale, e fine.
Proprio come si può facilmente riconoscere con l’ausilio di una sinossi, l’avvio e lo svolgimento della vita pubblica[33] (inizio e corpo centrale del racconto),come pure l’apice del suo conflitto con i capi del popolo (l’attacco del racconto della passione)[34], la sua risoluzione finale (l’inizio del racconto della risurrezione con le donne pellegrine al sepolcro)[35], nonché la storia delle origini rivisitata da Mt (i Magi cercatori adoratori, Erode cercatore persecutore) e Lc (Maria e Giuseppe in cerca di Gesù dodicenne)[36], sono caratterizzati da eventi che – per comuni e diversi che siano –, si producono tutti all’insegna d’un cercare Gesù[37], che, intrecciandosi alla questione della sua identità, assiologicamente parlando, già in Mc va configurandosi più generalmente in termini di una secca alternativa:
a) da un lato Gesù minacciato dalla ricerca persecutoria, mortale, finalmente efficace, quando i suoi nemici (dopo aver ripetutamente cercato di catturarlo e ucciderlo), se lo vedono inaspettatamente consegnato da uno dei dodici, e possono finalmente consegnarlo a loro volta a Pilato. Questa persecuzione ed eliminazione attuata dalle autorità del suo popolo viene accettata da Gesù in nome della sua incondizionata obbedienza alla volontà salvifica di Dio (in quanto suo Figlio e figlio dell’uomo);
b) a fronte invece abbiamo una ricerca all’insegna di una appropriazione comunque captativa e invasiva, da parte dei vicini di Gesù, dalla propria famiglia discepolare (emblematica la situazione del giorno successivo al primo sabato trascorso da Gesù in Cafarnao: 1,35-39) o parentale (3,31-35). La domanda sottostante suona: «dov’è Gesù?», ovviamente per trovarlo ed averlo, e la conseguenza sorprendente sarà scoprire (quindi sapere) chi effettivamente egli sia, quali siano i rapporti effettivamente per lui costitutivi.Quando è in gioco il possesso di Gesù, egli risulterà ultimamente accessibile solo in quanto appartenente a Dio e solo come tale trovabile e riconoscibile. Il tutto è da Gesù giocato all’insegna del compimento, consistente nell’accogliere il lato tragico del conflitto con i suoi persecutori, abbracciandolo in nome del suo risvolto teologale ed escatologico, che ne determina così la qualità salvifica.
Intrecciata alla domanda cristologica e quindi al processo del riconoscimento di Gesù di Nazareth, questa ricerca è il vero e proprio principio motore della sua vicenda, coinvolgente i protagonisti e i lettori. C’è coappartenenza reciproca tra domanda e confessione cristologica da un lato e ricerca cristologica dall’altro.
 
Un triplice vantaggio sarà ricavabile da questa prospettiva che attribuisce ai vangeli la mutua integrazione di racconto gnoseologico di rivelazione e racconto di soluzione in chiave di ricerca, rispettivamente consistente:
a) nel rispondere più puntualmente alla forma narrativa specifica (in senso anche compositivo) dei quattro vangeli, invero complessa, difficilmente riducibile in termini univoci, una forma di speciale interesse in quanto al tempo stesso da tutti e quattro condivisa, come pure dagli stessi originalmente rielaborata con molto riguardo, dal momento che – come si potrebbe mostrare, ma ovviamente non qui – essa viene legata da tutti e quattro a propri motivi teologici redazionali prediletti;
b) esplicitare il legame affettivo intrinseco al «sapere chi è Gesù», relativo tanto alla sua vicenda storica quanto alla scrittura della vicenda stessa, togliendo il sospetto che questo sapere possa prodursi indipendentemente da un’opzione di fondo di speciale visceralità;
c) sfidare l’inchiesta storico-critica, pervenuta alla sua terza fase di ricerca a una più sapiente ricalibratura non solo metodologica e contenutistica, ma anche effettivamente ermeneutica, che la purifichi da residui storicistico-positivisti non tutti ancora dissipati (chissà se abbiamo davvero fatto tutto il tesoro possibile della lezione di A. Schweitzer!).
 
3.3. Lo sviluppo della forma narrativa da Mc fino a Gv
Lo sviluppo successivo a Mc rilevabile attraverso il contributo di Mt Lc e Gv evidenzia le seguenti linee di tendenza circa i modi e i contenuti del narrare Gesù. Prescindendo da uno scavo storico circa gli intenti e la portata di questo processo[38], difficili da stabilirsi, sotto un profilo assai obiettivo possiamo rilevare le seguenti tendenze.
 
1) Da Mc in poi un largo ampliamento viene concesso all’insegnamento di Gesù. Mt e Lc inseriscono il materiale della fonte Q, prevalentemente costituito da detti, nonché quello a loro peculiare, Gv sviluppa una tradizione propria. Compositivamente Mt lo organizza in cinque grandi discorsi; Lc lo assume nella cornice del viaggio a Gerusalemme, lungo il quale Gesù insegna, incontra, guarisce; Gv a sua volta sviluppa i discorsi di Gesù a ridosso dei segni, combinandoli alternativamente nel suo racconto, fondendoli con i dialoghi, e concentrando il blocco dei discorsi di addio a ridosso dell’ora di Gesù. Questa espansione discorsiva resta sempre però agganciata alla sua storia, indisgiungibilmente inglobata nella forma narrativa, mai guadagnando una autonomia (diversamente da quanto avverrà p. es. nel vangelo gnostico di Tommaso, tutto esclusivamente composto da parole di Gesù, quindi canonicamente parlando solo impropriamente definibile «vangelo»). Il discorso inserito nel racconto produce un effetto di rallentamento sull’azione, di sospensione di temporalità, nonché di migliore intelligenza della vicenda e della persona di Gesù, di cui si accentua la qualità di figura rivelatrice. Compito attuale prefisso all’esegesi narrativa è lo studio di questo nesso, ancora troppo poco esplorato.
 
2) Da Mc fino a Gv il vangelo quadriforme spinge ad un’identificazione sempre più stretta tra Gesù terreno e Cristo della fede, per cui nella vicenda e nella persona di Gesù di Nazareth è già presente e traspaiono in germe l’identità e l’efficacia del Signore risorto. Già chiaro in Mc, questo tratto è sviluppato intensamente dagli altri tre evangelisti (si pensi in Mt alla rifinitura dei miracoli marciani; in Lc all’uso del titolo Signore sulla bocca del narratore, in Gv alla manifestazione della gloria come tratto permanente dell’umanità di Gesù prima della pasqua, al culmine nella passione intesa da Gv come glorificazione-esaltazione). Su questa linea di trasparenza ancora va apprezzata l’integrazione precoce ed ampia di tutte le forme omologiche entro la storia di Gesù (Mt e Lc anticipano notevolmente la confessione cristologica di Pietro collocata a metà del vangelo; Gv ancora di più: cfr. 1,49). Lc e Gv recuperano l’inno cristologico entro la narrazione. Gv integra anche le formule di missione, note alla tradizione paolina (Gal 4, Rm 8). La trasfigurazione, nei Sinottici praticamente unico anticipo di gloria cristologica terrena, diventa in Gv una dimensione dell’intera azione pubblica di Gesù fin dal prototipo dei suoi segni (Gv 2,11).
 
3) Tendenza all’ampliamento della storia di Gesù in direzione dei suoi estremi: l’arco narrativo biografico di Gesù si allarga per retrospezione e per prospezione: sia all’indietro, a ritrovare l’origine di Gesù (coi cosiddetti vangeli dell’infanzia di Mt 1-2 e Lc 1-2, e col prologo innico di Gv 1,1-18); sia in avanti, verso la vita di Gesù risorto. Inoltre maggior spazio viene concesso alla risurrezione (racconti di apparizione, inizialmente tralasciati da Mc) e all’interesse per il tempo della Chiesa (Lc + At) .
 
4) Tendenza a esplicitare la portata canonica del racconto evangelico in vista della fede cristologica. Lc 1,1-4 e Gv 19,35; 20,31; 21,24 dichiarano palesemente, a livello extradiegetico, la finalità e la garanzia assicurate dal loro scritto: rispettivamernte riconoscere la saldezza dell’insegnamento ricevuto attraverso una rilettura attenta e sintetica delle tradizioni precedenti (Lc), e credere che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, per aver vita nel suo nome, attraverso la testimonianza eccellente del Discepolo Amato, garantita dalla sua comunità (Gv). Lc coordina questo programma dichiarato con la soluzione diegetica, che vede i discepoli di Emmaus protagonisti prima di mancato e poi riuscito riconoscimento presentati come modello della finalità di conoscenza inizialmente comunicata al lettore (cfr. Lc 24,16.31 con 1,4). Analogamente, anche il IV vangelo (sfruttando i verbi oida, piuttosto che gignosko,oltre che pisteuein) si programma per una lettura tutta sotto questo aspetto[39].
 
5) Tendenza a sviluppare l’idea di compimento scritturistico. Il compimento viene invocato a illustrare lo scandalo del rifiuto del messia Gesù da parte delle autorità del suo popolo.In ogni caso i racconti evangelici vanno nella direzione di una intertestualità assai abile nel fare del proprio racconto cristologico un più breve ipertesto rispetto ad un ben più corposo ipotesto anticotestamentario, moltiplicando un fine gioco di citazioni e allusioni collocate alla cornice di apertura e di chiusura del libro e del vangelo. Cominciando con la geneaologia abramitica (Mt 1) e finendo con un richiamo a 2Cr 28 in Mt 28,16-20, il vangelo di Mt sembra mimare il gesto che sarà replicato a proprio modo da Gv (che comincia con in principio e finisce con Dt 34, echeggiato in Gv 20,30-31), con cui entrambi gli evangelisti sembrano alludere alla pretesa di «includere» nel proprio assai più breve racconto la storia di tutta intera la Torah, di volta in volta misurata secondi proporzioni diverse.
 
E tuttavia un’istanza unitaria (oggi meglio riconoscibile rispetto ad altri tempi della ricerca), governa lo sviluppo della narrazione cristologica, comunque riconducibile nelle sue diverse espressioni canoniche ad alcuni fattori intrinsecamente aggreganti piuttosto che disgreganti la figura cristologica sottoposta allo sviluppo narrativo del vangelo quadriforme. Largo consenso infatti si registra in merito al fatto che:
a) Gesù di Nazareth è il Cristo, il re d’Israele, la cui messianicità in realtà supera l’orizzonte medio di attesa del giudaismo del tempo, in riferimento alla sua opera terrena come pure alla sua croce e alla sua pasqua;
b) è il Figlio dell’uomo dotato di piena, anticipata exousia, tuttavia esercitata in nome di un servizio e di una dedizione incondizionati a Dio, includendovi la prospettiva di sofferenza;
c) è il Figlio di Dio mandato dal Padre, e sempre da lui risuscitato dai morti;
d) tutta la sua opera terrena, morte e risurrezione sono eventi salvifici escatologici, anticipazioni del regno di Dio;
e) Gesù è l’unico mediatore del dono dello Spirito, promesso dai profeti.
 
3.4. La specifica qualità narrativa di Mc, Mt, Lc e Gv
E, tuttavia, su questa sostanziale e profonda univocità cristologica del vangelo quadriforme si disegna un ampio ambito di pluralità irriducibile, ma non arbitraria. Declinato al narrativo, l’unico Evangelo esiste sempre orientato secondo una particolare angolatura agiografica. Non sarebbe possibile, e nemmeno di per sé auspicabile, scrivere una storia di Gesù perfettamente esauriente e globale, che magari foss’anche capace di allineare tutte le sue vicende singulatim, una per una (kath’hen,come argutamente ragiona Gv 21,25)[40]. Nella sua versione narrativa l’unico Evangelo si dà solo nella quadruplice attestazione. Ecco perché mette sicuro conto recuperare lo specifico narrativo di ogni vangelo, in nome di una consapevolezza necessaria per raccontare Gesù[41].
 
1) Testimone di una ancor fresca saldatura tra kerygma e storia,Mcci offre uno specialissimo racconto kerygmatico, secondo il quale tutta la vita di Gesù altro non fu che una rivelazione sconcertante, al tempo stesso un’epifania intensa e misteriosa (M. Dibelius)[42],velata e luminosa, di volta in volta contratta e dirompente. Sempre e dovunque, dal battesimo al Giordano (1,1-8.9-11) fino al Golgota (15,21-41) e al sepolcro, nei tempi, luoghi e modi della sua storia quella di Gesù fu imprevedibile, grandiosa e scandalosa manifestazione della potenza di Dio nel suo Figlio. Questo più antico vangelo pertinentemente definibile come aniconico[43],ovvero, ancor meglio,ossimorico[44],soddisfa le attese narrative suscitate nel lettore con un compimento abitualmente spiazzante il lettore stesso, ad ogni pericope o quasi, nella misura della propria determinazione a capire la storia, costretto a desituarsi rispetto alle proprie legittime aspettative e a ricollocarsi nella sorprendente ottica rivelativa veicolatagli dall’inattesa soluzione marciana.Nella sua dirompente singolarità Gesù si rivela in quanto Cristo e Figlio di Dio, solidale coi peccatori dall’inizio (nel suo battesimo) fino alla sua derelizione finale sulla croce, dove la sua identità di Figlio di Dio noto solo al Padre (e ai demoni), viene riconosciuta dal centurione suo carnefice. Con la sua cristologia grezza, ma al tempo stesso intrinsecamente alta, capace di assorbire genialmente nel proprio quadro di un Gesù dirompente e imponente[45] aspetti popolari, folklorici, il racconto marciano produce un lettore costantemente spiazzato, dirottato dallo scarto narrativo (tutto si compie in modo inaspettato per il lettore) e dallo scarto kerygmatico (la fede arranca con qualche strutturale fatica nell’accogliere un kerygma, che sempre non solo la precede, ma anche la trascende)[46], che si coappartengono, dotato di ironia fulminante, spesso a spese dei discepoli, e, di rimbalzo, sul lettore.
 
2) Rispetto a Mc (di cui assume il 90% del materiale) Mt propone un racconto al tempo stesso amplificato e intensamente stilizzato, deprivandolo della vivacità sorprendente della sua fonte primaria a tutto vantaggio d’una straordinaria chiarezza. Il suo è un racconto midrashico, discorsivamente e narrativamente ridondante, dove l’informazione viene minimizzata, e combinata ad un massimo di comunicazione (con conseguenze di prevedibilità da parte del lettore, a scapito di improbabili alternative)[47]. Gesù non solo compie sovrabbondantemente, agendo in nome di una «giustizia maggiore» (5,17.20; cfr. 3,15), ma anche (col suo narratore) ama ripetersi, spalmando la propria misericordiosa azione e istruzione con più ricca esuberanza (cfr. Mt 8,16-17 con Mc 1,32-34). Rispetto a Mc, la ricerca cristologica prende qui una piega straordinariamente positiva, diventando oggetto di istruzione discepolare, con Gesù in persona maestro di ricerca del regno (stessa soluzione in Lc, con Mt a propria volta debitore di questa prospettiva alla cosiddetta fonte Q). Distanziandosi nettamente da Mc, per Mt val il principio istruito da Gesù in persona, per cui chi cerca, trova (cfr. Mt 28,5.8 come adempimento effettivo di Mt 7,7-11): le donne al sepolcro non solo si dimostrano prontamente obbedienti al comando dell’angelo, mescolando gioia grande al timore (cfr. Mt 28,8 con Mc 16,8); ma incontrano inaspettatamente Gesù, che quasi delude, ripetendo il messaggio dell’angelo, nulla quindi aggiungendo se non direttamente la propria stessa presenza, dando quindi vita ad una scena narrativamente parlando espletiva, tutt’altro che insignificante in quanto funzionale ad una cristologia della presenza e partecipazione all’insegna dell’Emmanuele, che produce un lettore adoratore, sulla falsariga non solo delle donne e degli undici (28,9.17), ma già dei Magi, adoratori pagani della prima ora (2,2.8.11).
Rispetto al Gesù raccontato da Mt il destinatario è inteso come un lettore saturato, edificato. Siamo all’opposto di Mc, che invece non ha riguardo ad imporgli anche più audaci acrobazie spirituali. Significativo il trattamento dei discepoli, che, se in Mc ancora sono molto lontani dal capire (Mc 4,13; 6,52; 7,18; 8,17-18; 21;33; 10,38), in Mt comprendono tutto assai bene (Mt 13,51-52). Semmai il rimprovero concerne la poca fede (6,30; 8,26; 14,31). La stilizzazione della figura cristologica (spogliata dei particolari più coloriti e folklorici di Mc: cfr. Mt 9,24; 14,19; 21,6; 26,19 coi paralleli), a ben vedere non comporta un’edulcorazione dell’immagine di Gesù, e tantomeno una tendenza doceta, dal momento che Mt conserva tutto lo spessore di una figura carica di mistero profondo e scandaloso[48]. Semplicemente Mt rende più nitidi e più facilmente contemplabili i contorni del Pantokratore, raffigurando Gesù effettivamente come tale già manifesto nella sua umanità: l’identità più stretta tra il Gesù terreno e il Signore glorificato produce la massima trasparenza[49]del secondo nel primo.
Ma proprio in quanto Gesù è Signore (e Cristo) egli esercita un magistero supremo, quello della giustizia maggiore (5,20), che egli per primo adempie (3,15; 5,17ss.). La sua funzione magisteriale (consegnata al verbo didaskein) compare già all’inizio della sua attività, nel primo sommario che la sintetizza (4,23), in apertura (5,2) e in chiusura (7,29) del suo primo discorso, in altri sommari (9,35; 11,11; 13,54). Il luogo è spesso la sinagoga (4,23; 9,35; 13,54), ovvero il tempio (21,23; 26,55). Poiché alla fine proprio questo compito di insegnare è affidato dal risorto ai propri discepoli, che debbono trasmettere l’insegnamento di Gesù a tutte le nazioni (28,20), ecco che con la risurrezione Gesù raggiunge il pieno della sua autorità magisteriale[50]. I suoi famosi cinque grandi discorsi (tanti quanti i libri della Torah, che Gesù intende compiere fino al più piccolo iota, e non abolire: 5,17-19), hanno, quali destinatari più diretti, gli uditori della comunità di Matteo e i lettori di ogni successiva epoca che non i protagonisti del vangelo stesso. Attraverso di essi traspare il Signore della chiesa, l’avvicinabile per eccellenza, in quanto Emmanuele, colui che nella gloria si avvicina ai discepoli[51]. In quanto rivelatore del Padre, il Gesù matteano, è maestro e pedagogo unico di umanità filiale[52], secondo una parola fondatrice dell’etica e della ecclesialità. In particolare l’istruzione relativa al discorso della montagna concentra in termini praticamente esclusivi (fanno eccezione solo 10,20.29) i sintagmi Padre tuo/nostro/vostro. Gesù esordisce parlando di Dio per la prima volta menzionandolo come Padre vostro (5,16); prosegue poi menzionandolo come Padre tuo/nostro (6,4.6.18); per concludere, a sorpresa, con il Padre mio (7,21). Solo qui Gesù parla al discepolo illustrandogli Dio in questi termini: lo fa in quanto figlio rivelatore ad ogni discepolo della propria filialità rispetto al Padre, e in quanto il maestro che insegna a confidare in lui[53].
 
3) Lc/At si presenta come un racconto storico-salvifico, con l’ambizione di istruire a una lettura teologica e tipologica della storia, agganciato retrospettivamente al tempo dell’Antico Testamento, come pure prospettivamente aperto sulla missione della Chiesa. In questo grandioso affresco, quale«centro» non tanto «del tempo», bensì «dei tempi»,sta Gesù Signore e Salvatore, Figlio di Dio e profeta escatologico, che sale a Gerusalemme e di lì al Padre, datore dello Spirito e guida alla vita,archetipo fondatore e normativo di tutti i tempi storico-salvifici precedenti e successivi, perno di una singolare, unica tipologia, da Lc volentieri dispiegata nel gioco del doppio e della synkrisis,elaborata fino alla narrazione delle vite parallele. Lc è un narratore perfettamente a proprio agio nella storia salvifica, capace di elevare il proprio lettore ad almeno analoga competenza. Da acribico scriba mansuetudinis Christi, narra la pazienza del compimento cristologico che ha potuto sperimentare come membro della seconda generazione cristiana (1,1-4), e ne dispiega tutta l’esuberanza pneumatica, legandola volontieri alla pienezza di spirituale esultanza dei propri personaggi. Prediligendo uno schema binario in parallelismo alternato[54] (molto ricorrente in Lc-At), dove azione divina e reazione umana si susseguono alternandosi fino ad una risoluzione definitiva, sperabilmente nel segno del riconoscimento finale dell’evento salvifico, Lc racconta la vicenda di Gesù come mediazione di trascendenza nella storia, perseguendo, nei confronti del proprio lettore, una vera e propria manuductio in mysterium. Questo schema rivelazione divina/reazione umana ricorre molto frequente all’inizio[55] e alla fine del vangelo[56]. In At 10x in tutto[57], anche per la rivelazione di Dio a Mosè (sicché una medesima struttura di rivelazione è stimata abbracciare tutti i tempi salvifici).Soprattutto, ma non solo, attraverso la cristologia ascendente della salita a Gerusalemme (9,51-19,28), in realtà di ascesa al Padre, per Lc la ricerca cristologica – fatta oggetto d’intensa istruzione discepolare –, si fa esperienza di incontro restituente lo sguardo ai ciechi (18,35-19,10; 24,13-35), conformemente al proclama programmatico di Gesù nella sinagoga di Nazareth (Lc 4,16-21).
 
4) Gvinfine si presenta come racconto testimoniale particolarmente versato nell’arte della mise en abîme, in ogni singolo episodio e in ogni parte anticipando il tutto del vangelo. Tutto è funzionale ad un’anticipata rivelazione di gloria coincidente con la storia stessa di Gesù, fin dal suo inizio (2,11), e culminante già con la croce, con l’ora di sua esaltazione-glorificazione. Tutto si gioca in una cristologia dell’obbedienza, chiave della cristologia alta del vangelo centrata sulla missione del Figlio, ma anche dell’autopresentazione («Io sono» senza e con predicati salvifici), da saldare ai segni e alle opere da lui prodotti. E, tuttavia si farebbe torto al racconto giovanneo se non si cogliesse l’originaria e spiccata qualità antropologica della sua cristologia, soprattutto per la speciale frequenza di anthropos in bocca a Gesù[58] e applicato a lui[59], secondo un uso caratterizzato da un particolare scambio simbolico, cioè in senso solidale[60], ogni volta che l’umanità di Gesù è volentieri messa in rilievo a diretto raffronto con quella dei suoi interlocutori (letterariamente ricorrendo ad anthropos come parola-gancio, o addirittura come parola-chiave, o almeno come vero e proprio leit-motiv[61].Talaltra volta anthropos è termine investito in senso ostensivo-deittico. L’uomo Gesù subisce una vera e propria mostrazione, spiccando con speciale evidenza all’interno dell’enunciazione portante[62]. Gv racconta Gesù in ultima analisi attestandolo nell’atto di mostrarsi nella sua umanità filiale e vivificante, essa stessa propriamente una «ostensione», capace di automanifestazione trasparente agli occhi della fede. Forse si può spiegare così il fatto che quello giovanneo è racconto cristologico abitualmente contemplato nella sua portata più profonda con straordinaria intensità del commento narrativo implicito, oltre che con la grande abbondanza di quello esplicito.
I quattro vangeli corrono sul filo conduttore comune di una conoscenza e di una ricerca cristologica fra loro interconnesse, diversamente modulanti la di lui storia, per cui se Mc ci racconta Gesù annunciandolo con rinnovata, spiazzante sorpresa, Mt lo fa istruendo sovrabbondantemente circa la sovrana presenza dell’Emmanuele, Lc a propria volta mediando la gioiosa intelligenza del compimento, Gv attestando la gloria del Figlio unico generato e incarnato, rivelatore del Padre (1,18).
 
 
4. Conclusioni: istanze di rienunciazione del racconto evangelico
Nei limiti del nostro breve percorso proviamo a raccogliere alcune istanze fondamentali relative al raccontare Gesù in ordine a recuperare quell’originaria «confidenza narrativa» caratteristica di ogni atto testimoniale e in modo particolare delle testimonianze evangeliche.
1) Racconta adeguatamente Gesù chi si mantiene nella correlazione dinamica tra kerygma e racconto, tra momento cristologico eidetico, che si concede alla sintesi estrema relativa alla persona e alla missione di Gesù, e momento anamnetico, che invece recupera il più circostanziato contesto della sua storia. Naturalmente, sempre raccordando, almeno implicitamente, la parte al tutto, e il tutto alla parte, così da saldare sempre più dal di dentro, con naturalezza kerygma e storia di Gesù.
2) Analogamente un fedele e creativo racconto di Gesù avrà molta cura di non rimuovere, e non dare per scontata la domanda cristologica implicita rispetto al kerygma, ed invece più esplicita rispetto alla sua storia, ma piuttosto di sollecitarla in ordine a coinvolgersi e a coinvolgere con rinnovata freschezza nella ricerca e nella confessione cristologica. In particolare proprio la domanda cristologica, recuperata al vivo del racconto, si dimostrerà particolarmente preziosa per non far sì che la proclamazione di Gesù si stemperi in un preconfezionato e inerte sapere già Gesù, in ultima analisi poi addirittura a prescindere dall’effettiva sua rivelazione storica.
3) Il che comporta intraprendere un cammino di ricerca non meno spiazzante di quello sperimentato dai discepoli, che per l’appunto implicò pure una decostruzione dell’immagine di Gesù, e correlativamente degli stessi discepoli, anche nel caso più benevolo di una ricerca discepolare e non ostile. C’è comunque di mezzo un’opzione di fondo su cui decidersi, tra ostilità a Gesù e discepolarità nei suoi confronti. Tuttavia anche in questo secondo caso trovare Gesù non è questione per nulla ovvia, ma semmai di sequela che si lascia istruire a caro prezzo da Gesù, maestro di ricerca del regno di Dio. Le testimonianze della fede che ci narrano Gesù sono unanimi nel proporci l’equazione per cui una immagine adeguatamente elaborata di Gesù sta in diretta proporzione del superamento delle immagini messianiche e antropologiche precostituite rispetto alla sua vita terrena e al suo esito pasquale.
4) La figura cristologica è narrabile solo collocandosi all’interno del conflitto che Gesù sostiene, dovendo egli mediare il pensare secondo Dio rispetto a quanti invece pensano solo secondo gli uomini (Mc 8,33). Il conflitto ha la sua soluzione cristologica appunto in Gesù che abbraccia il proprio destino di Figlio dell’uomo e nella sua obbedienza di Gesù al Padre, con cui siamo ricondotti a Dio attraverso la sua risurrezione. Per quanto drammatico, siffatto conflitto risulta alla fine ironico, sottraendosi per quanto possibile ad un orizzonte tragico.
5) La narrazione di Gesù abbisogna pure di collocarsi in equilibrio dinamico tra l’Evangelo e i Vangeli. Per un verso deve lasciarsi docilmente istruire dal diverso genio agiografico dei singoli evangelisti, alla cui scuola si apprendono aspetti cruciali e impareggiabili della figura di Gesù. Per l’altro deve però mantenere la consapevolezza che la grandezza in gioco, «la cosa» in questione come usa dirsi, non è ultimamente la teologia di Mc, Mt, Lc o Gv, bensì quel Gesù Cristo Figlio di Dio e salvatore da essi diversamente, ma altresì unanimemente attestato.


[1] Nel greco profano euagghelion si riferisce alla ricompensa data al messaggero, recante una buona notizia; al plurale indica le offerte agli dei in ringraziamento per una buona notizia; per metonimia significa la buona notizia stessa. Nella koinè si impone il suo uso al pl. nell’ambito della teologia politica. L’iscrizione di Priene del 9 aC saluta la nascita dell’imperatore Augusto come «l’inizio per il mondo nelle buone notizie che lui portava»(includendo vittorie militari, successi politici). Si tratta di eventi mondani, religiosamente sovradeterminati, plurali e accumulabili in serie (uno isolato è impensabile), poiché solo la loro somma può fornire una proclamazione propagandistica e procacciarsi una memoria grata. Il loro medium di supporto è l’iscrizione memoriale su pietra. In merito, cfr. T. Söding, Ein Jesus - Vier Evangelien. Zur Vielseitigkeit und Eindeutigkeit der neutestamentlichen Jesustradition,«Theologie und Glaube» 91 (2001) 409-443 (ib. 410-411).
[2] Neanche i LXX conoscono euagghelion al singolare (solo 3x al plurale 2Re 4,10; 18,22.25) nel senso di ricompensa per una buona notizia. Viene usato invece il verbo: «annunciare una buona notizia». Nel NT abbiamo un uso frequente al singolare; e soprattutto un uso assoluto «il vangelo» – la buona notizia per eccellenza – la salvezza escatologica portata da Gesù con la sua vita, morte e risurrezione. Nel NT abbiamo un uso esclusivo al singolare; e soprattutto un uso assoluto «il vangelo» – la buona notizia per eccellenza – la salvezza escatologica portata da Gesù con la sua vita, morte e risurrezione. Il singolare corrisponde al contenuto, al locutore, e ai destinatari del vangelo. Vocabolo paolino per eccellenza (60x, sulle 76x nel NT; 21x il verbo, su complessive 49x). Segue Mc (8x, di cui 3x uso assoluto: 1,1; 8,35; 10,29). Lc nel vangelo ha solo il verbo; ma in At 15,7; 20,24 anche il sostantivo; inoltre soprattutto At 10,34-43 v. 36 cita Is 52,7). Cruciali per Paolo 1Ts 1,10 (dove si punta sul ritorno del Figlio che ci libera dall’ira ventura), 1Cor 15,3-5 (che insiste sulla morte espiatrice di Gesù e sulla sua risurrezione secondo le scritture), Rm 1,3-4 (che annuncia il sovrabbondante compimento della promessa davidica in Gesù Figlio di Dio con la risurrezione dai morti mediante uno spirito di santificazione). Solo un unico vangelo è salvifico (Gal 1,6ss.). Dalla semplice rilevazione statistica si arguisce che «vangelo», «per quanto riguarda il suo significato, è una voce cristiana, probabilmente usata nel cristianesimo ellenistico, dove operò Paolo. “Vangelo” significa quindi l’annuncio della buona notizia della salvezza escatologica mediante la fede in Cristo, vissuto, morto e risorto per noi» (G. Segalla, Panorama letterario del Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 1986, 44).
[3] «Appartiene all’univocità della teologia neotestamentaria di parlare correntemente del vangelo al singolare. Il che fa tanta maggior meraviglia, in quanto nel NT non abbiamo un singolo libro, bensì quattro scritture evangeliche, così come anche non una sola formula di fede, un unico formulario liturgico, un dogma, bensì un gran numero di lettere apostoliche, precedute dagli Atti degli Apostoli, e l’Apocalisse di Gv come conclusione del NT, e all’interno di questi scritti una molteplicità di confessioni, riflessioni, e meditazioni dell’evento Cristo» (T. Söding, Ein Jesus - Vier Evangelien, 412-413).
[4] «Il vangelo quadriforme documenta una grande, ancorché non illimitata multilateralità nella testimonianza dell’unico vangelo. Appare benissimo il contrasto con l’uso linguistico pagano. Mentre i molteplici vangeli dell’imperatore abbisognano se possibile di un unico testo, l’unico vangelo del NT si presenta fondamentalmente nella forma dei quattro vangeli. Tra questi libri neotestamentari su Gesù si registra un ampio campo di sostanziali comunanze (che dall’esegesi storico-critica non sono state registrate sempre adeguatamente), ma anche numerose differenze, contrasti, tensioni (che dall’esegesi precritica sono state meno registrate)» (T. Söding, Ein Jesus - Vier Evangelien, 413).
[5] A. von Harnack, Geschichte der altchristlicher Litteratur bis Eusebius. Zweiter Theil: Die Chronologie. I Band: Die Chronologie der Literatur bis Irenäus nebst einleitende Untersuchungen, Leipzig, 1897, 681.
[6] In merito cfr. S. Barbaglia, La rilevanza ermeneutica delle disposizioni canoniche dei testi nelle Sacre Scritture. Metodo ed esemplificazioni,«Ricerche Storico Bibliche» XIII (2001) 185-268.
[7] E. Zenger, Einleitung in das Alte Testament (4. Auflage),Kohlhammer, Stuttgart 2001, 34.
[8] H.Y. Gamble, The New Testament Canon,Fortress Press, Philadelphia 1985, 35.
[9] Sul tema si veda B.M. Metzger, The Canon of the New Testament. Its Origin, Development, and Significance, Clarendon Press, Oxford 1989.
[10] M. Hengel, The Titles of the Gospels and the Gospel of Mark, in Id., Studies in the Gospel of Mark, SCM Press, London & Philadelphia 1985, 64-84; Id., The Four Gospel and the One Gospel of Jesus Christ. An Investigation on the Collection and Origin of the Canonical Gospels, SCM Press, London 2000; G. Segalla, Evangelo e Vangeli. Quattro Evangelisti, quattro Vangeli, quattro destinatari, EDB, Bologna 1992. Sorge il problema quando ci si rende conto delle implicanze di un vangelo quadriforme: significa che nessuno di essi è perfetto (B.M. Metzger, The Canon of the New Testament, 262). Prima di una più esplicita coscienza canonica l’uso delle singole chiese poteva tendere a privilegiare un solo vangelo (Mt in Palestina; Gv in Asia minore). Il Canone Muratori (contro i tentativi di una contestualizzazione tardiva, in realtà plausibilmente databile attorno al 220) sottolinea con forza l’unità fondamentale del contenuto, nonostante la molteplicità dei vangeli: «et ideo, licet varia singulis Evangeliorum libris principia doceantur, nihil tamen differt credentium fidei, cum uno ac principali spiritu declarata sint in omnibus omnia de nativitate, de passione, de resurrectione, de conversatione cum discipulis suis ac de gemino eius adventu, primo in humilitate despecto, quod fuit, secundo in potestate regali praeclaro, quod futurum est». Problema chiaramente manifesto anzitutto nei diversi tentativi di reductio ad unum (per esclusione o per armonizzazione). Per esclusione, in terminimacroscopici Marcione accettava solo Luca (anch’esso debitamente mutilato), mentre gli Ebioniti riconoscevano solo Matteo, i Valentiniani solo Giovanni. Per dichiarata armonizzazione, su tutti spicca Taziano (discepolo di Giustino, 170 ca., poco prima di Ireneo), che compone tò dià téssaron euaggélion, che significa «il vangelo mediante i quattro», e nello stesso tempo evoca una nozione di armonia musicale («la quarta»). Si trattò di una reazione alla crisi marcionita, nell’ambizione di unificare non escludendo, bensì integrando artificiosamente. Non fu l’unico tentativo in questa direzione, ma certo il più riuscito, dal momento che il Diatessaron per tre secoli si imporrà come il testo liturgico ufficiale per le Chiese siriane della regione di Edessa. Commentato dallo stesso Efrem il Siro (IV sec.), verrà messo da parte da Teodoreto di Ciro (V sec.).
[11] G. Lohfink, Erzählung als Theologie, «Stimmen der Zeit», 192/99 (1974) 521-532 (523) .
[12] P. Ricœur, Tempo e racconto. Vol 1., Jaca Book, Milano 1986 (orig. 1983); Vol 2. La configurazione del racconto di finzione, Jaca Book, Milano 1987 (orig.1984); Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993 (orig. 1990); L’identité narrative, in P. Bühler - J.-F. Habermacher (éds.), La narration. Quand le récit devient communication (Lieux théologiques 12), Labor et Fides, Genève 1988, 287-300.
[13] Non mi pare, infatti, che questa definizione colga sufficientemente lo specifico del racconto (applicandosi, infatti, anche al puro discorso, anch’esso ovviamente amalgama di elementi eterogenei). L’idea di «sintesi del conflitto» di punti di vista eterogenei mi pare assai più pertinente alla messa in intrigo.
[14] Sempre attuato come sintesi di istanze diegetiche ed extradiegetiche (con cui ritroviamo il concetto ricœuriano di intreccio come «sintesi dell’eterogeneo»).
[15] B. Uspensky, A Poetics of Composition. The Structure of the Artistic Text and Typology of a Compositional Form, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1973 (or. russo 1970).
[16] Lucidamente così già R. Scholes- R. Kellog, La natura della narrativa, Il Mulino, Bologna 1970 (or. 1966), 305ss (sott. mia).
[17] Per queste due concezioni dell’ironia (e relativa bibliografia) rimando all’esposizione propostane in R. Vignolo, La poetica ironica di Qohelet. Contributo allo sviluppo di un orientamento critico,«Teologia» 25 (2000) 217-240.
[18] Che l’ironia configurante qualunque narrativa funzioni fondamentalmente come denegazione lo si può verificare pensando soprattutto all’ironia drammatica (l’inintenzionale brutta figura di qualche personaggio), che gioca sullo scarto tra coscienza del personaggio stesso, punto di vista del narratore e del lettore, vittimizzando il primo a vantaggio di quest’ultimo. La forma narrativa funziona come denegazione in quanto a livello dell’intrigo e della sua unità testuale convoglia sia successivamente sia simultaneamente punti di vista diversi, interagenti a due livelli, e cioè secondo la propria intenzionalità specifica e quella del narratore. Nella voce di ogni personaggio risuona infatti simultaneamente sempre anche quella del narratore che, nella fattispecie, mentre lo lascia esprimere secondo il di lui punto di vista, è in grado al tempo stesso di veicolare il proprio. Il gioco narrativo dei diversi punti di vista in conflitto fa effetto complessivo di denegazione.
[19] Il testo è un «medio», un ponte gettato tra due eticità, quella dell’autore e quella del lettore. Con W. Booth (l’inventore del fortunato aggettivo «implicito» attribuito rispettivamente all’autore dell’opera letteraria e al suo lettore, in quanto riconoscibili per la sola mediazione dell’opera stessa), possiamo assumere la pratica della lettura nella metafora della relazione amicale e della responsabilità etica di fronte al testo, alla sua vicenda, ai personaggi in azione, rispondendo alla domanda: chi diventiamo attraverso la lettura di questo o quest’altro testo? Quale responsabilità intendiamo assumere di fronte al suo appello? (cfr. W. Booth, The Company we keep. The Ethics of Fiction, University of California Press, Berkeley 1988).
[20] In merito, due significativi recenti contributi: D. Marguerat (éd.), La Bible en récit. L’exégèse biblique à l’heure du lecteur. Colloque international d’analyse narrative des textes de la Bible, Lausanne (mars 2002), Labor et Fides, Genève 2003; E. Steffek - Y. Bourquin (éd.), Raconter, interpréter, annoncer. Parcours de Nouveaue Testament. Mèlanges offerts à Daniel Marguerat pour son 60° anniversaire, Labor et Fides, Genève 2003.
[21] A livello di integrazione metodologica è noto il passaggio dal metodo storico-critico isolato, al critico letterario integrato (dal principio archeologico al principio olistico e teleologico). Ma c’è ancora molto da fare per approfondire il nesso (più sottile di quanto si pensi) tra racconto storiografico e racconto di finzione (un altro cavallo di battaglia di Ricœur). Internamente all’ambito narrativo medesimo, molti problemi sono ancora in fase di assestamento teorico e applicativo (semeiotica o narratologia? quale teoria narrativa?). Sembra ormai acquisito un certo spostamento di accento dall’intreccio al personaggio, recuperato dopo i veti strutturalistici, emanati in tempi di una certa qual «tirannia» dell’intreccio.
[22] A. Gesché,Pour une identité narrative de Jésus, «Révue Théologique de Louvain» 30 (1999) 153-179; 336-356.
[23] Per la seguente analisi mi permetto rimandare alle più analitiche pagine delle dispense del Corso di Cristologia (parte biblica), Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore (ad uso auditorum tantum), Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, Milano 1986. In 1Cor 15,3-5 si collegano assieme due linguaggi distinti. Il linguaggio penitente di un soggetto collettivo confessante il valore salvifico espiatorio della morte di Gesù (di cui il gruppo stesso in questione si riconosce frutto) viene in 1Cor 15,3b appena un poco più rielaborato ed espansoquando, sullo sfondo di Is 53 il più semplice e antico pro nobis diventa un più sofisticato pro peccatis nostris secundum scripturas (cfr. 1Cor 8, con 15,3). Ma soprattutto entra in peculiare combinazione con il linguaggio kerygmatico laudativo relativo alla sua risurrezione (è stato resuscitato il terzo giorno),esso stesso passibile di qualche nuova determinazione circa l’uso del perfetto (che sostituisce il più tradizionale aoristo puntuale: fu risuscitato), il riferimento al terzo giorno, nonché di nuovo la conformità alle scritture.
[24] La sequenza morte-e-sepoltura non vale qui solo come resoconto storico di una successione ovvia e inalterabile, ma sanziona anche un giudizio conclusivo sulla storia di Gesù, che con la propria sepoltura viene così come «archiviato» per sempre al pari di altri personaggi della vicenda storico-salvifica di Israele (Gedeone: Gdc 8,32; Aronne: Dt 10,6; 1Re 2,10; Is 53,99).
[25] 1Cor 15,3-5 esibisce una sua plausibile autoevidenza, intrinseca al suo stesso svolgimento narrativo. Naturalmente a certe condizioni di competenza in ultima analisi scritturistica (per cui può capire chi mastica almeno qualcosa di Antico Testamento) parla qui la stessa sequenza degli eventi (la morte salvifica, almeno fattualmente, è infatti confermata dalla sepoltura; e lo stesso dicasi per la risurrezione, garantita dall’apparizione successiva a Kefa e ai discepoli). A loro volta morte e risurrezione sono confermate e unite tra loro in quanto «secondo le scritture».
[26] Sulla domanda cristologica, sempre con profitto H. Schlier, Zur Frage: Wer ist Jesus?, in J. Gnilka (hrsg.), Neues Testament und Kirche. FS für R. Schnackenburg, Herder, Freiburg - Basel - Wien 1974, 359-370.
[27] J.-N. Aletti, Le Christ raconté. Les Évangiles comme litérature?, in F. Mies (éd.), Bible et littérature. L’homme et Dieu mis en intrigue, Presse Universitaire de Namur, Namur 1999, 29-53.
[28] E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale. 2 voll. (PBE 49), Einaudi, Torino 1964.
[29] Basta verificare per entrambi il loro cruciale impiego dei verbi di conoscenza nel rapporto narratore e lettore attraverso i personaggi rispettivamente di gignosko (per Lc) e oida (per Gv).
[30] P.A. Sequeri, Il Dio affidabile. Saggio di teologia fondamentale (BTC 85),Queriniana, Brescia 1996.
[31] J.-N. Aletti, L’arte di raccontare Gesù Cristo. La scrittura narrativa del vangelo di Luca (BB 7), Queriniana, Brescia 1991, seguendo la tipologia di T. Todorov, La notion de littérature et autres essais,Du Seuil, Paris 1987, 46-54.
[32] Per limitarci ad alcuni parziali riferimenti: Davide (1Sam 16,16-17; 19,2.10; 22,23; 23,10.14.15.25; 24,3; 26,2.20; 27,1.4); Elia (1Re 17-19; 2Re 2,1-18; cfr. Mosè in Es 2; il giusto perseguitato dei salmi...). Giuseppe (Gen 37,15-17). L’amata in cerca dell’amato (Ct 3,1-4; 5,6; 6,1). La tradizione sapienziale (Pr 1,28-33; 2,1-4; 8,17-21; 14,6; 15,14; 18,5; 28,5; 29,10; Qo 1,13-14; 12,10; 3,15; 7,23-25.28; 8,16-18; Sir 6,23-31; 14,20-15,10; Sap 1,1b-2; 6,12-16; 8,18.
[33] Inizio e svolgimento della vita pubblica: Mc 1,27; 1,37; 8,11-12; 9,10.14-16; 11,18; 12,12.28; Mt 12,46-47; 16,4; 21,46; Lc 4,42; 6,19; 11,16.29; 19,3; Gv 1,39; 5,18; 6,24.26; 7,19.20.25.30.34.36; 8,21.37.40; 10,39; 11,8.56 (inoltre 13,33; 16,19).
[34] In apertura del racconto della passione: Mc 14,1.11.55; Mt 26,16.59; Lc 22,2.6.23; Gv 18,4.7.8; 19,12.
[35] In apertura del racconto della pasqua: Mc 16,6; Mt 28,5-6; Lc 24,5.15; Gv 20,15.
[36] Nella storia delle origini di Gesù: Mt 2,13.20; Lc 2,44-45.48-49.
[37] Sulla base di questo comune pattern compositivo significativamente ogni vangelo si istituisce come ricerca cristologica rielaborata in base ai propri interessi teologico-redazionali più specifici. In merito, ABI, Quaerere Deum. Atti della XXV settimana biblica, Paideia, Brescia 1980 (in particolare, i due contributi di G. Segalla, La ricerca di Dio come ricerca del regno nei Sinottici, 213-234 e di B. Maggioni, La ricerca di Dio in Cristo nel Vangelo di Giovanni, 369-418); R.F. Collins, The Search for Jesus, in These Things have been written. Studies on the Fourth Gospel (LT&PM, 2), Peeters Press - Eerdmans, Louvain 1990, 94-127; J. Painter, The Quest for the Messiah. The History, Literature and Theology of the Johannine Community, T&T Clark Edimburgh 19932; R.Vignolo, Una finale reticente: interpretazione narrativa di Mc 16,8, «Rivista Biblica»39 (1990) 129-189; Id., Cercare Gesù: tema e forma del vangelo di Marco, in L. Cilia (a cura di), Marco e il suo vangelo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1997, 77-116 [in forma breviore: «Parola, Spirito, e Vita» 35 (1997) 89-126]; Id., La recherche de Jésus comme forme du récit évangelique. Un exemple à partire de l’évangile de Marc, in C. Focant - A. Wènin (eds.), La Bible en récits 2 (BETL CXCI), Peeters University Press Leuven, Leuven 2005, 537-545 (di prossima pubblicazione). Ultimamente anche J.P. Fokkelman, Come leggere un racconto biblico. Guida pratica alla Narrativa biblica, EDB, Bologna 2002 (or. 1995), 203-205, a proposito di Gesù parla in termini di storia di ricerca (tuttavia più sulla scorta del generale modello attanziale greimasiano, per cui qualunque racconto è per definizione una ricerca, che non in base della forma compositiva specifica dei racconti evangelici).
[38] Lasciamo qui da parte problemi del tipo: volevano, i tre evangelisti successivi, integrare Mc, o non più semplicemente soppiantarlo? Quanto alla questione di quale reciproca conoscenza godessero l’uno dell’altro, il rapporto più problematico sembra quello tra Mt e Gv. In ogni caso l’idea che questi testi appartengano ad un cristianesimo primitivo parcellizzato tutto in ordine sparso e poco correlato non sembra più di tanto perseguibile.
[39] In cornice intradiegetica iniziale (Gv 1,26.31.33) e poi finale, con tanto di climax ascendente, dove prima (20,9.14; 21,4) «i discepoli «non sanno», ma poi (21,12) finalmente «sanno che è il Signore»; e, per concludere, in cornice redazionale extradiegetica: «noi sappiamo che la sua testimonianza è vera!» (21,24; cfr. 1Gv 5,13.15.18-20; Ap 13,18; 17,9; Mc 13,14; Mt 24,15).
[40] Quel kath’hen sarà leggibile in antitesi alle titolature dei vangeli, costruite anch’esse con il katà + il nome dell’evangelista all’accusativo.
[41] In merito al rapporto unità/pluralità dell’immagine cristologica, vedi R. Schnackenburg, La persona di Gesù nei quattro vangeli (Supplementi al Commentario Teologico del Nuovo Testamento 4), Paideia, Brescia 1995; R. Penna, I ritratti originali di Gesù Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria. I. Gli inizi, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1996; Id., II. Gli sviluppi, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1999; R.P. Brown, Introduzione alla Cristologia del Nuovo Testamento (BB 19), Queriniana, Brescia 1995 (or. 1994), 92-99. Inoltre T. Söding, Ein Jesus - Vier Evangelien.
[42] M. Dibelius, Die Formgeschichte des Evangeliums, Tübingen 19332, 232.
[43] In quanto accumula «un punto cruciale sull’altro, ciascuno capace di istituire un’intensa opposizione tematica» (F. Kermode, The Genesis of Secrecy in the Interpretation of Narrative, Harvard University Press, Cambridge 19803, 141).
[44] Y. Bourquin, Le «soleil noir», ou l’oxymore implicite dans l’évangile selon Marc, in E. Steffek - Y. Bourquin (éd.), Raconter, 92-104 (nel senso che l’ossimoro non si riduce alla pura antitesi, ma scommette per una qualche conciliazione degli opposti). Disposto ad estendere l’ossimoro alla più complessiva figura della verità teologica e cristologica si dichiara G. Bellia, Possibilità di un profilo di Gesù nel Nuovo Testamento, «Anthropotes» 16/2 (2000) 339-364 (362-364).
[45] Così già J. Blinzler La prédication de Jésus dans l’évangile de Marc, in J. Blinzler (et alii), Jésus dans les évangiles (Lire la Bible 29), Du Cerf, Paris 1971, 60, e V. Taylor, Marco. Commento al vangelo messianico, Cittadella, Assisi 1977. In merito alla cristologia marciana apprezzata in chiave narrativa, insieme al più semplice e datato di J.D. Kingsbury, The Christology of Mark’s Gospel, Fortress Press, Philadelphia 1983, vedasi il più aggiornato e agguerrito contributo di M. Vironda, Gesù nel Vangelo di Marco. Narratologia e cristologia (ABI Suppl. Rivista Biblica 41), EDB, Bologna 2003.
[46] Sul tema cfr. T. Söding, Glaube bei Markus. Studien zur markinischen Theologie (Stuttgarter Biblische Beiträge 34), Stuttgart 2002. Per lo scarto narrativo e kerygmatico, nonché per il rapporto titoli e racconto, mi permetto rimandare a R. Vignolo, Una finale reticente: interpretazione narrativa di Mc 16,8 e Id., I titoli cristologici nel vangelo di Marco, «Credere oggi» 131/132 (2002) 67-88 (numero monografico sul tema).
[47] J.C. Anderson, Matthew’s Narrative Web: Over, Over, and Over Again (JSNT.SS 91), JSOT Press, Sheffield 1994. Questa idea di ridondanza veicola lo stile formulaico caratteristico di Mt, legata ai seguenti fenomeni letterari formulaici: introduzioni alle citazioni di compimento (1,22; 2,5.15.18.23; 3,3; 4,12-16; 8,17; 12,17-21; 13,35; 21,4; 27,9ss.), introduzioni alle parabole (13,24; 18,23; 22,2; 25,1); conclusioni minacciose – pianto e stridore di denti (8,12; 13,42.50; 22,13; 24,51; 25,30). Si aggiunga anche il raddoppio di parole, ricontestualizzate in ambiti diversi del racconto (missione alle pecore sperdute d’Isrele: 10,6; 15,24; misericordia voglio, non sacrificio: Os 6,6 in Mt 9,13;12,7; i primi saranno gli ultimi...: 19,30; 20,16; una generazione malvagia e adultera: 12,39; 16,4; a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza: 13,12; 25,29; compassione per le folle prima della moltiplicazione dei pani: 9,36; 14,14). Mt non rifugge nemmeno dal raddoppio di personaggi (due, invece di uno come in Mc 5,2, diventano gli indemoniati gadareni: 8,28; invece di un solo cieco, nominato come Bartimeo e narrato una sola volta, in Mt 9,27-31, oltre che in Mt 20,29-34, sotto la penna di Mt ne compaiono due per ben due volte). Due diventano pure i destrieri di Gesù che entra a Gerusalemme (per motivi di maggior conformità al testo del compimento scritturistico: asina e asinello in Mt 21,2 proprio come in Zc 9,9). Al centurione che sotto la croce confessa Gesù Figlio di Dio, Mt aggiunge anche “quelli che erano con lui” (Mt 27,54). Il duplice grido di Gesù in croce viene inteso come una replica della stessa preghiera (27,46.50). Rispetto a Mc 15,38, una fluviale ridondanza di sette effetti apocalittici scatena la morte di Gesù, nella quale Mt riconosce la morte della morte (oltre al velo del tempio squarciato, la terra si scuote, le roccie si spezzano, il sepolcri si aprono, molti santi risuscitano, e, dopo la sua risurrezione entrano in Gerusalemme e appaiono a molti: Mt 26,51-53).
[48] Anche per Mt 27,46 Gesù muore con sulla bocca l’attacco del Sal 22,2; e pure secondo Mt 24,36 il Figlio, pur plenipotenziario (Mt 11,25-27; 28,18), nemmeno lui conosce l’ora della consumazione escatologica (proprio come in Mc 13,32).
[49] «Anche nelle sezioni narrative, in particolare nei miracoli, il racconto si fa “trasparente”, lascia intravvedere l’esperienza attuale della chiesa, tutta sospesa all’azione salvifica del suo Signore. La redazione matteana dei miracoli punta ad un massimo di trasparenza: cadono i dettagli così vivaci in Mc, spariscono i personaggi secondari, sbiadiscono le circostanze di tempo e di luogo, ritornano nell’anonimato i protagonisti; resta in primo piano solo l’incontro di salvezza , le parole del malato a Gesù e di Gesù al malato: l’incontro di salvezza nella fede, nel quale ogni lettore è chiamato a riconoscere il proprio incontro con Cristo, la sua attuale esperienza di salvezza» (V. Fusco, Matteo, in P. Rossano - G. Ravasi - A. Girlanda, Nuovo Dizionario di Teologia Biblica,Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo [MI] 1988, 930-937: 935-936).
[50] «Si direbbe allora che per Mt la stessa risurrezione, più che collocare Gesù in un ruolo salvifico non abbia fatto altro che ribadirne l’immagine di Maestro/legislatore, integrandola più esplicitamente con quella regale del giudice eterno» (V. Fusco, Matteo, 934).
[51] «Di qui l’aspetto più maestoso, ottenuto anche eliminando certe notazioni di Marco sulla psicologia umana di Gesù: dolore, ira, meraviglia e sgomento (cfr. Mt 12,12 con Mc 3,5; Mt 16,1ss. con Mc 8,12; Mt 13,58 con Mc 6,6; Mt 26,37 con Mc 14,33) e, aggiungendo invece immancabilmente tre piccoli elementi che trasformano ogni incontro con Gesù in un piccolo cerimoniale di corte: l’accostarsi, cioè fermarsi ad una certa distanza prima di essere ammessi (52 volte contro 5 in Mc e 10 in Lc), l’inchinarsi profondamente (13 volte contro 2 e 3), l’interpellarlo con il titolo “Signore” (44 volte contro 6 e 23), tre elementi originariamente possibili anche come forma di cortesia, in Mt però riservati solo ai credenti, mentre gli estranei lo chiamano Rabbi (cfr. Mt 20,20 con Mc 10,35; Mt 8,25 con Mc 4,38); essi lasciano trasparire più fortemente già nel Gesù terreno il Cristo glorioso» (V. Fusco, Matteo, 933-934). Tuttavia l’accostarsi può essere interpretato in quanto Gesù, come l’Emmanuele, è per definizione colui che si lascia avvicinare e interpellare, maestro accessibile soprattutto ai suoi discepoli. Per la prima volta i discepoli si avvicinano a Gesù in occasione del primo suo discorso, quello della montagna, per molti versi emblematico (5,1); successivamente sono i soggetti principali più frequenti di questo movimento (13,10; 13,36; 14,12.15; 15,12.23; 17,19; 18,1; 24,1.3; 26,17). Lo avvicinano persone di tutti i tipi (anche il lebbroso: 8,2; il centurione: 8,5; l’emorroissa: 9,20; i due ciechi: 9,28; i discepoli di Giovanni: 9,14; molte folle: 15,30; il padre dell’epilettico: 17,14; gli agenti della tassa del tempio [a Pietro!]: 17,24; il giovane ricco: 19,16; la madre dei figli di Zebedeo: 20,20; ciechi e zoppi nel tempio: 21,14; la donna che lo unge a Betania: 26,7; le donne al risorto 28,9; anche nelle parabole i personaggi praticano l’avvicinamento: 21,28.30; 25,20.22.24).
[52] Padre: 11,27,25-26.27 (2x); 24,36; 29,18; Padre tuo: 6,4.6 (2x).18 (2x); Padre nostro: 6,9; Padre vostro: 5,16.45.48; 6,1.8.14.15.26.32; 7,11; 10,20.29; Padre mio: 7,21; 8,21; 10,32.33; 11,27; 16,17; 18,10.14.19.35; 20,23; 25,34.41; 26,29.39.42.53; Padre loro: 13,43; Padre suo: 16,27 (in tutto 43x).
[53] Interessante la polarità entro cui queste parole collocano il Padre, tra interiorità alla coscienza del discepolo, in un rapporto personalissimo di riconoscimento («il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà»), e la trascendenza della paternità divina, in un rapporto di provvidenza («il Padre vostro celeste sa che ne avete bisogno»). Quale esperto in prima persona di umanità filiale, Gesù è il rivelatore della paternità divina al discepolo.
[54] Segnalato da A. Serra, Sapienza e contemplazione di Maria secondo Luca 2,19.51b, Roma 1982, 178-195, che conta almeno 22x. Ma si deve contare almeno fino a 27x, aggiungendo alla sua lista i testi della vocazione di Paolo (At 9;22;26), la visione di Anania (9,10-19), nonché lo stesso discorso dell’Areopago (17,16-34). Da segnalare il monografico che «Credere oggi» 119/120 (2000) (a cura di G. Leonardi) dedica a «La teologia narrativa di San Luca», con ampia bibliografia.
[55] Ben 7x in Lc 1-2: l’apparizione dell’angelo a Zaccaria (Lc 1,11-25) e a Maria (1,26-38); il nome per Giovanni Battista (1,59-80); gli angeli ai pastori (2,8-16); l’annuncio dei pastori (2,17-20); Simeone e Anna (2,25-38); Gesù ritrovato nel tempio (2,46-51).
[56] Tutto Lc 24 ne è dominato, essendo presente in ognuno dei tre episodi maggiori: le donne alla tomba vuota (24,1-12); i discepoli di Emmaus (24,12-35); l’apparizione conclusiva (24,36-53). Solo 5x nel corpo del vangelo (la predicazione del Battista: 3,1-20, di Gesù a Nazareth: 4,16-30; l’insegnamento di Gesù: 8,4-21; guarigioni di Gesù: 9,37-45; 11,14-28) e poco frequente nel viaggio a Gerusalemme (comprensibilmente, poichè qui abbonda il materiale discorsivo rispetto a quello narrativo).
[57] L’ascensione di Gesù (At 1,9-14); la Pentecoste (2,1-41); il miracolo di Pietro (3,1-4,4); apparizione di Dio a Mosè nel roveto ardente (7,30-36); vocazione di Saulo (9,1-9); meraviglia di fronte a Saulo (9,19b-25); visione di Pietro (10,9-29); Pentecoste dei pagani (10,44-48); vocazione di Paolo raccontata a Gerusalemme, e poi a Cesarea (22,6-16; 26,12-18 ).
[58] Gv 5,34.41; 6,10; 7,22.23; 8,17.40; 19,5 (aggiungi poi i testi del Figlio dell’uomo).
[59] In tutto tra i 17 e i 19 testi (3,27; 4,29; 5,7.12; 7,46; 8,40; 9,11.16 (2x) .24; 10,33; 11,47.50; 18,14.17.29; 19,5), cui si deve aggiungere lo anér di 1,30.
[60] Per questo concetto G. Baudrillard, Lo scambio simbolico, Feltrinelli, Milano 20023.
[61] Si ricorre a anthropos come parola gancio: 4,28 e 4,29; 5,5 e 5,7; come leit-motiv di sviluppi narrativi e drammatici: 5,5.7.9.12.15.27.34.41; 7,22.23 (2x) .46.51; 8,17.28.40; 9,1.11.16 (2x) .24 (2x) .30.35; come inclusione 11,47.50. Come sintesi retrospettiva: 10,33; 11,47. Naturalmente anche passi come 2,25-3,1 e temi come la conoscenza che Gesù possiede dell’uomo partecipano di questo scambio simbolico, certo non limitato all’uso di un singolo eppur significativo lemma. Così lo scambio simbolico tra l’umanità di Gesù e dei suoi uditori passa a livello di una condivisione – sia pure a diversi gradi – di una medesima «vocazione» divina (all’accusa di 10,33, Gesù risponde citando Sal 82,6 «voi siete dèi!», secondo un’ermeneutica di specialissimo spessore), tocca il tema della sua morte per il popolo e per la sua unificazione (11,50).
[62] Con l’articolo determinato (5,12; 9,11; 19,5); con un pronome/aggettivo dimostrativo (la maggioranza dei casi: 7,46; 9,16.24; 11,47; 18,17.29); con un pronome di seconda persona singolare (10,35); ovvero sostenuto da una vera e propria ostensione (“vedete”/”ecco”: 4,29; 19,5).

 

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R. Vignolo, Raccontare Gesù secondo i quattro Vangeli311.14 KB