Il canone del Primo Testamento

 

 
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di Patrizio Rota Scalabrini
 
1. La formazione del canone ebraico
Per quanto concerne il canone del Primo Testamento (TeNaK), bisogna subito segnalare che nel mediogiudaismo vi sono gruppi che adottano un criterio restrittivo per quanto riguarda il canone, e cioè non riconoscono alcuna scrittura normativa al di fuori della Legge/Tôrāh. È questo certamente il caso dei samaritani; più controversa è la posizione dei sadducei. Simile opinione sembra riscuotere il consenso anche da parte degli ebioniti, gruppo giudeo-cristiano.
L’evoluzione verso la forma del TeNaK è testimoniata alla fine del II secolo attraverso l’associazione dei Profeti/ Nebî’îm alla Legge/Tôrāh, e non semplicemente in qualità di lettura edificante, bensì quale parola di Dio. In questo senso è assolutamente preziosa la testimonianza del Siracide, quando, offrendo l’elogio dei padri (Sir 44-50), percorre tutta una serie di personaggi biblici, che suppongono un accostamento di quelli presentati nella Legge con quelli presenti nei Profeti cosiddetti “anteriori”, nonché nei Profeti “scrittori” (con l’eccezione di Daniele). Peraltro sono coinvolti anche personaggi che appaiono nella collezione degli Scritti, come è il caso di Zorobabele, ma soprattutto di Neemia. Manca però Esdra, e perciò non è testimoniata una conoscenza completa dei testi di Esdra-Neemia.
Questo abbozzo di canone diventa più chiaro proprio nell’introduzione che il traduttore antepone all’opera del Siracide (verso il 132 a.C.); qui appare chiaramente la classica suddivisione della Bibbia ebraica: «Molti e profondi insegnamenti ci sono stati dati nella Legge, nei Profeti e negli altri scritti successivi, e per essi si deve lodare Israele come popolo istruito e sapiente» (Sir, Prologo, v. 1). Sempre nello stesso testo il traduttore parla di suo nonno Gesù «dedicatosi lungamente alla lettura della Legge, dei Profeti e degli altri libri dei nostri padri» (Sir, Prologo, vv. 9-10). Le altre informazioni che ci vengono da questo testo sono che gli originali esistevano già in ebraico; inoltre fa capire tra le righe di conoscere delle traduzioni greche della Legge e dei Profeti e del resto dei libri (vv. 24-25), ma di non apprezzarne sempre la resa dell’origina testo in lingua ebraica.
Appare chiaro che per Legge si intende il Pentateuco, per i Profeti la collezione dei profeti “anteriori” e degli “scrittori”; meno preciso è invece il corpo del terzo gruppo, quello degli Scritti, che sembra essere ancora aperto. Infatti tra le righe si avverte l’attesa che il traduttore e autore del Prologo ha nei confronti dell’opera da lui tradotta, cioè che si possa inserire in questo corpo di scritti: «Nell’anno trentottesimo del re Emergete, venuto in Egitto e fermatomi ivi alquanto, dopo aver scoperto che lo scritto è di grande valore educativo, anch’io ritenni necessario adoperarmi con diligenza e fatica per tradurlo. Dopo avervi dedicato molte veglie e studi in tutto quel tempo, ho condotto a termine questo libro, che pubblico per coloro che all’estero intendano istruirsi conformando i propri costumi per vivere secondo la legge» (Sir, Prologo, vv. 27-35).
Si giunge così alla problematica che riguarda il passaggio dall’era del secondo Tempio a quella del giudaismo postbiblico. Ci si chiede allora se ci sia stata, circa il canone biblico, qualche deliberazione autoritativa fra gli scribi del movimento farisaico sopravissuto alla catastrofe del 70 d.C. La questione incrocia quella del sinodo o concilio di Jabne o Jamnia. Le nostre informazioni sono esigue e resta da chiedersi se davvero quel sinodo sia mai stato celebrato e, ancor più, se in quell’ipotetica occasione sia stato affrontato il problema del canone biblico. La tesi tradizionale ritiene che il cosiddetto sinodo di Jabne sia stato una assemblea dei principali rabbi della Palestina, riuniti, fra il 90 e il 105 d.C., in questa località, a sud dell’odierna Tel Aviv. Suo scopo sarebbe stato quello di risolvere un conflitto di autorità fra rabbi; in queste riunioni si sarebbe discusso anche sulla canonicità del Cantico dei Cantici e dell’Ecclesiaste (Qohelet), ovvero se, secondo il detto rabbinico, il libro in questione “sporca o meno le mani”, ossia se, essendo libri sacri, il loro contatto obbligava poi a purificarsi o, invece, trattandosi di libri comuni, il loro contatto non esigeva alcuna purificazione. Dalle discussioni intercorse sappiamo che il Cantico era ampiamente accettato come canonico, mentre sussistevano forti dubbi sull’Ecclesiaste.
In questo periodo Flavio Giuseppe, scrittore giudeo che esprime la sensibilità farisaica, parla esplicitamente di 22 libri santi nella sua opera Contra Apionem (1,38-41) scritta verso il 95 d.C.. A suo avviso «Presso di noi non ci sono miriadi di libri …, ma solo ventidue. Cinque contengono la legge e la tradizione dalla creazione dell’uomo fino alla fine della vita di Mosè. Questo lasso di tempo comprende 3000 anni. Dalla fine di Mosè fino ad Artaserse … i profeti dopo Mosè hanno scritto gli eventi in tredici libri … Da Artaserse fino al nostro tempo, tutto è stato scritto, ma questo non è degno della stessa fiducia accordata ai libri precedenti, perché non c’è più stata una precisa successione profetica».
Analizziamo più a fondo l’elenco concreto descritto da Giuseppe Flavio: «Innanzitutto i cinque libri di Mosè, contenenti le leggi e la tradizione dalla creazione del mondo fino alla sua morte, per un periodo di circa tremila anni. Dalla morte di Mosè fino ad Artaserse, successore di Serse sul trono persiano, i Profeti venuti dopo Mosè, narrarono la storia del loro tempo in tredici libri. Gli ultimi quattro contengono inni a Dio e precetti morali per gli uomini».
Ai 22 libri riconosciuti da Giuseppe Flavio come normativi per la comunità giudaica, si giunge, probabilmente così: i cinque libri del Pentateuco; per i profeti anteriori: Giosuè, Giudici (più Rut), 1-2 Samuele, 1-2 Re; per i profeti posteriori: Isaia, Geremia (più Lamentazioni), Ezechiele, Profeti minori (cioè i Dodici Profeti), Giobbe, Ester, Daniele, Esdra-Neemia (uniti), 1-2 Cronache; per il terzo gruppo degli Scritti: Salmi, Proverbi, Cantico dei Cantici ed Ecclesiaste.
Per la problematica del canone è significativo quanto scrive l’apocrifo 4Esdra (testo del I-II sec. d.C.). A tale proposito scrive J. M. Sánchez Caro: «Nel cap. 14 vi si narra appunto come Esdra, ispirato dalla divina sapienza, detti a cinque scribi 94 libri in 40 giorni. Secondo le direttive divine deve pubblicare i primi 24 affinché siano letti da tutti, e conservare gli altri 70, per consegnarli alla lettura soltanto dei sapienti. In questa narrazione troviamo vari punti interessanti. Si parla innanzitutto di un canone di 24 libri biblici, probabilmente gli stessi di Giuseppe Flavio, ma con un computo separato di Rut e Lamentazioni; troviamo inoltre una difesa dei libri apocalittici, il cui numero qui è settanta. Questa apologia consiste nel farne risalire l’origine allo stesso Esdra e allo Spirito di sapienza presente in lui. Scopriamo così, di nuovo, il criterio che la corrente del giudaismo farisaico aveva imposto per l’accoglimento nella lista canonica di determinati libri, e precisamente che fossero stati composti sotto ispirazione profetica e tramandati senza soluzione di continuità fino ad Esdra. Tutto perfettamente comprensibile, se teniamo presente che queste pagine sono scritte al tempo di Jabne, quando i rabbini si mostrano chiaramente ostili a gran parte della letteratura apocalittica esistente, distinguendola con precisione dai libri canonici» (J.M. Sánchez Caro, «Il canone della Bibbia», in A.M. Artola - J.M. Sánchez Caro, Bibbia e parola di Dio, Edizione italiana a cura di A. Zani (= ISB 2), Brescia, Paideia Editrice, 1994, 53-115, qui 76).
Per molti esegeti vale allora la tesi che nel sec. I d.C. non esista ancora un canone pienamente fisso della Bibbia ebraica, ma che la situazione presenti una certa fluidità, specialmente per l’ultima parte. Ben più consolidati sono invece i due grandi insiemi della Tôrāh e dei Profeti, che sono riconosciuti come libri sacri, dotati di autorità per la comunità di fede.
Per gli Scritti, i Salmi sono già riconosciuti nel loro valore normativo, ma le ultime sezioni, il quarto e soprattutto il quinto libro dei Salmi, sono ancora incerte nella loro delimitazione precisa, come appare, ad esempio, anche dai reperti di Qumran.
A quanto pare, l’elaborazione di un canone vero e proprio della Bibbia ebraica è riconducibile all’opera degli scribi farisei nel periodo compreso fra le due rivolte giudaiche, tra il 70 e il 135 d.C. Non sono chiare le ragioni che spingono il giudaismo ad una tale scelta. Sembra, però, che vi influiscano diversi fattori, collegati alle precise circostanze storiche che il giudaismo sta attraversando. Anzitutto un fattore interno, ossia la necessità di trovare un elemento di coagulo capace di tutelare l’identità giudaica in un momento in cui né il tempio né il culto non possono più sostenerla. Tale identità richiede anche una difesa, non tanto nei confronti del paganesimo e del culto dell’imperatore – in quanto essendo il giudaismo religio licita non ha gli stessi problemi che troverà il cristianesimo delle origini –, ma di fronte al moltiplicarsi dei libri apocalittici e al nuovo fenomeno del cristianesimo. Definire un canone della Bibbia ebraica costituisce perciò un presidio davanti alle correnti apocalittiche e al sorgere di una nuova letteratura religiosa, e precisamente quella cristiana, letteratura che sta gradualmente acquisendo un suo status di “sacra”.
La discussione esegetica in proposito oscilla nella valutazione della preponderanza dei fattori interni, necessitanti la chiusura di un canone, inteso anche come lista di libri e non solo come norma, o dei fattori esterni di natura apologetico-polemica. Si tratta di valutare poi se gli stessi motivi abbiano mantenuto la loro incisività anche dopo la sventurata ribellione di Bar Kochba. La prima attestazione interna agli scritti giudaici circa la presenza di un canone potrebbe essere della fine del II sec. o degli inizi del III sec., e precisamente un passo del Talmud (Baba batra 14b-15a).
 
 
2. Scriptura secundum Scripturas
Lo stesso testo biblico del TeNaK offre delle attestazioni di una crescente consapevolezza canonica, cioè esibisce dei passi dove emerge la coscienza di porgere al lettore un testo scritto e normativo, perciò non alterabile dalle generazioni future. Si tratterebbe qui di individuare quei testi dove emerge un’autocomprensione che la Bibbia (limitandoci qui al Primo Testamento) ha di se stessa, quale scritto normativo, testi nei quali possiamo cogliere, in definitiva, una sorta di teologia della Scriptura secundum Scripturas.
Infatti il Primo Testamento non solo si autocomprende come Parola di Dio, cioè rivelazione divina per la vita del popolo, ma come Parola di Dio scritta, consegnata cioè in quella forma che permane nel tempo, la scrittura, la quale consente l’atto della lettura, che non è semplicemente l’ascolto di un testo orale. Il lettore, infatti, può tornare più volte su quanto ha letto, rileggere, rallentare i tempi secondo i suoi ritmi interiori, a differenza di quanto avviene con l’orale.
Ebbene, il Primo Testamento ha una chiara consapevolezza del proprio statuto di scrittura e lo consideriamo qui esattamente sotto questo aspetto, prendendo in analisi le tre grandi articolazioni del TeNaK.
 
2.1. Una “scrittura normativa”: la Tôrāh
La prima volta che si parla di “scrittura” in modo significativo, all’interno della Tôrāh, è in occasione dell’Alleanza al Sinai (cfr. Es 24,3-8; 31,18; 32,15-16; 34,1-4.27-35). Questo significa che la Legge concepisce se stessa come Scrittura dell’Alleanza, cioè come un dispositivo che fa memoria del cammino del popolo con il suo Dio, e della promessa divina che sta all’origine di tale cammino. L’episodio di Es 24,3ss. mostra come il libro attesti la risposta positiva del popolo all’iniziativa divina, e quindi documenti il suo impegno a custodire l’alleanza. Il libro quindi non è concepito come una sorta di entità che scende dal cielo, al modo in cui alcune religioni pensano al loro libro sacro. Solo le Dieci Parole sono definite “scrittura del dito di Dio”, il resto è lo scritto di Mosè, quasi uno scrigno che le custodisce.
La Legge riconosce di essere l’intreccio tra iniziativa divina e risposta umana, documento di tale incontro: la sua reiterata lettura comporterà un rinnovato impegno a vivere nell’alleanza.
L’altro scritto biblico che esibisce se stesso nel suo statuto di libro è il Deuteronomio, ricapitolazione dell’intera Tôrāh. Esso mette in luce la normatività del libro e la sua capacità di indicare quanto Israele deve credere, se vuole restare fedele alla sua storia con Dio. La normatività (cfr. Dt 4,2ss. con la proibizione di aggiungervi o togliervi qualcosa) è qui evidenziata dal fatto che esso diventa determi­nante per Israele, che sarà allora giudicato pro­prio in base alla sua fedeltà o infedeltà all'istruzione mosaica offerta autorevolmente dal Libro!
Inoltre il Deuteronomio si presenta come uno “scritto di confine”, che scandisce i momenti di entrata e di uscita personali o comunitari, quotidiani o epocali. È la Scrittura con cui Dio equipaggia il suo popolo, assicurando il passaggio tra i vari momenti, e offrendo così il filo unitario con cui intendere questa storia. La funzione liminare del Deuteronomio ne fa una scrittura che accompagna il passaggio dalla generazione dei “testimoni” dell’evento fondatore (Esodo-Sinai-deserto) alla generazione successiva, cioè quella che vive nell’oggi, nella problematica dell’essere fedeli quotidianamente al Dio che si è rivelato nella storia. Per questo si parla di uno scritto per tempi post-moderni, proprio perché è preoccupato della continua attualizzazione del messaggio, trasmesso dagli scritti precedenti.
Sempre nel Deuteronomio vi è un interessantissimo testo sulla Scrittura, e cioè il comando per il re di tenere presso di sé una copia del libro della Legge (Dt 17,15-20) da leggere ogni giorno. Il passo biblico dice letteralmente che sarà la Legge a stare presso di lui, quasi a dire che essa gli farà compagnia, sarà il suo sostegno e la sua luce. Poiché il re rappresenta qui la qualità regale di ogni credente, comprendiamo come si voglia suggerire al fedele israelita una verità importantissima: la lettura della Scrittura (Tôrāh) lo aiuterà a restare umile, cioè a ricercare rapporti di fraternità con il prossimo, senza insuperbirsi, e a mantenere la fiducia nel Signore, perché lo scritto gli ricorderà sempre quanto Dio ha fatto per lui.
 
2.2. Un libro per lottare e sperare: i Nebî’îm
Nei profeti anteriori il tema del “libro” appare già con la figura di Giosuè. Abbiamo visto come l’omonimo libro lo presenti come l’emblema del credente che, munito del libro della Parola di Dio, si appresta a conquistare la terra e riceve la promessa della riuscita di ogni sua impresa (Gs 1,1-6.7-9; cfr. anche Sal 1,3).
Di questo libro (Legge) dato a Giosuè, il primo scritto dei profeti anteriori fa risaltare i seguenti tratti: l’aspetto teofanico, cioè il rivelarsi di Dio nella sua lettura; il carattere simbolico di pegno inalienabile dell’eterna Alleanza, dovuta all’indefettibile fedeltà del Signore ad Israele; la perenne forza ispiratrice, analoga a quella dello Spirito; e infine la necessità di una sua lettura sapienziale, quasi una degustazione di esso e un mormorarlo amorosamente tra se stessi.
Il libro, la Parola di Dio divenuta scritto normativo, ricompare nella successione da Davide a Salomone (1Re 2,1-4), e soprattutto prima dell’esilio per riformare il popolo e riportarlo all’adorazione del vero ed unico Dio, quando Giosia legge il rotolo ritrovato nel tempio (2Re 22,1-23,27; 2Cr 34-35).
Ma nel corpus profetico il testo certamente più pregnante sulla tematica della Parola di Dio è quello di Ger 36, con il famoso episodio del rotolo scritto, letto, bruciato, riscritto. La Parola di Dio consegnata nello scritto è l’equivalente della persona del profeta e del suo messaggio verbale. Anzi, giunge anche là dove Geremia non può giungere e comunica così la sua predicazione, oltre le barriere dello spazio e del tempo.
Il suo contenuto, qualificato come «parola del Signore» (vv. 4.11), «parole di Geremia» (v. 10), lo rende profeta per missione (deve indurre alla conversione v. 3), per vocazione (è scritto per ordine di YHWH) e per la sua fine drammatica (v. 23). Ma soprattutto il destino della Parola è di morte e risurrezione, come indica la riscrittura del rotolo. Similmente alle parole della Legge (Sinai) viene scritto due volte, poiché la prima scrittura è stata come coperta dal peccato, contro il quale il libro diventa strumento di lotta.
In definitiva, se raccogliamo i vari testi in cui appare il tema del libro all’interno del corpus profetico, possiamo dire che la Scrittura ivi parla di sé e si presenta allora come testimonianza per conoscere le vie di Dio, e imparare a sperare anche nei tempi bui (Os 14,10; Is 30,8; Ab 2,1-4; Ger 30,1-4).
In questa linea ricordiamo i testi della vocazione di Ezechiele, con il comando di mangiare il libro e, soprattutto, la conclusione del memoriale di Isaia (Is 8, 16-20). Vale la pena di sostare su questa pericope. Di fronte ad una dinastia e ad un popolo che temono più gli uomini che il loro Dio, al profeta Isaia non resta infatti che racchiudere in un “memoriale” la sua inascoltata predicazione. La decisione di fissare il messaggio oracolare e di garantirne la conservazione intende attestare la perenne validità della Parola di Dio, della quale il profeta e la comunità dei discepoli sono testimoni con l’intera esistenza, separata dalla condotta di vita del popolo incredulo. Lo scritto del memoriale di Isaia è al servizio della speranza, perché la sua predicazione fissata, sigillata e custodita dai suoi discepoli, certifica la potente presenza del Signore in mezzo al suo popolo, anche quando la situazione sembra umanamente disperata e il Dio di Israele appare chiuso nel silenzio.
Lo scritto segue un regime coerente con la disciplina della fede, di quella fede consapevole che la salvezza può venire solo da YHWH e si concretizza nell’attenersi fedelmente all’insegnamento divino, prendendo le distanze da una religiosità magica e manipolatoria del sacro.

2.3. La sapienza diventa libro: i Ketûbîm
Nella sezione dei Ketûbîm riappare il tema della Parola di Dio consegnata come scritto, e precisamente per riorganizzare e rivitalizzare la fede del popolo dopo il trauma dell’esilio, con Esdra e Nehemia (Ne 8-9). Nella stessa direzione bisognerà intendere anche la passione del popolo di Dio nel custodire i suoi libri sacri, accettando persino la persecuzione e vedendo nel rogo dei libri l’equivalente del martirio dei giudei fedeli alle tradizioni religiose. Di questo parlano i deuterocanonici libri dei Maccabei (1Mac 1,54-64; 3,48; 2Mac 8,23).
La scrittura sapienziale (Qo 14,10; cfr. anche il deuterocanonico Sir 50,27-30) persegue la ricerca della contemporaneità della Parola di Dio, della sua capacità di illuminare le problematiche quotidiane, di evidenziare le costanti dell’esistenza umana, specie nelle sue grandi domande. Nei testi sapienziali vi è sempre più la consapevolezza di una coincidenza della Sapienza con un sapere che è formato dalla lettura della Tôrāh e dall’incontro con gli scritti dei profeti (Prologo di Sir; Sir 24; Bar 3,9-4,4).
Infine la sezione sapienziale del TeNaK offre anche la scrittura della preghiera: invocazione, lode, colloquio con Dio e meditazione amorosa della sua Parola. Si legga in particolare Sal 40,7-9 e Sal 102,18-19 (“Questo si scriva per la generazione futura e un popolo nuovo darà lode al Signore”). Il libro dei Salmi si presenta quindi come Scrittura da trasmettere alla generazione futura, perché un popolo nuovo dia lode al Signore e il credente rilegga la sua vita come obbedienza alla volontà di Dio manifestata tramite il rotolo del libro. Gli autori di queste preghiere le presentano come messe sulla loro bocca da Dio stesso, e cesellate con il suo aiuto con stilo di scriba veloce. Non è ovviamente la concezione magica di una Parola che scende dal cielo, ma la consapevolezza che il sentimento della preghiera è formato dall’incontro con la rivelazione di Dio.
 
 
3. Significato della forma canonica della Bibbia ebraica

3.1. Il primo blocco: Tôrāh
Il primo blocco, detto Tôrāh o Pentateuco, secondo l’espressione greca, è identico al Pentateuco della Bibbia cristiana. Il posto della Tôrāh nell’ottica ebraica è assolutamente centrale, e costituisce il fondamento della fede e della prassi dell’ebraismo, che riconosce in essa il suo tesoro più prezioso, il documento della rivelazione di Dio, la guida sicura per il cammino, il fondamento dell’identità stessa di Israele.
Merita qui un’attenzione particolare il Pentateuco, che testimonia un fenomeno importante per capire la formazione del libro biblico. Tale fenomeno è chiamato con un termine tecnico piuttosto ostico (deuterosi), ma forse si può più semplicemente rendere con raddoppiamento o, meglio ancora, con ricapitolazione. Ognuno dei tre blocchi canonici mostra parti o libri attestanti tale fenomeno. Il Deuteronomio è collocato al confine della terra, al di là del Giordano, quando si è ormai al limitare del compimento della promessa. A questo punto il passato è concluso e può essere sintetizzato nel suo significato più profondo: Dio ha dato al suo popolo una Legge, un comandamento o, in altre parole, un’Alleanza che è lo statuto della relazione tra Lui ed Israele. Anche la Legge non si profonde più nei singoli comandamenti, ma è come raccolta attorno al suo nucleo, nel concetto di Legge come tale. Nella ricapitolazione deuteronomica, il passato diventa rivelazione, istruzione e comando capace di illuminare l’oggi e guidare il presente del lettore.
La Legge assume qui valore esponenziale e il lettore si trova interpellato non tanto per attuare questo o quel comando, ma a decidersi per la Legge, a decidersi per una sorta del “comandamento del comandamento” (cfr. Dt 30,15ss.).
 
3.2. Il secondo blocco: Nebi’îm
Per i Profeti la distinzione è forte, rispetto alla nostra Bibbia, soprattutto perché, oltre ai nostri testi profetici (per gli ebrei: profeti posteriori), il blocco ebraico premette, chiamandoli profeti anteriori, i libri di Giosuè, Giudici, 1-2 Samuele e 1-2 Re.
La cosa più importante è però notare lo stretto legame dei profeti con la Tôrāh. Essi si presentano nella forma canonica della Bibbia ebraica come commento alla Legge, come il suo giudizio sul presente. Si noti che, all’inizio dei profeti anteriori, Giosuè è presentato come profeta che medita la Tôrāh e vi trova la forza per compiere la missione ricevuta da Dio: «Solo sii forte e molto coraggioso, cercando di agire secondo tutta la legge che ti ha prescritta Mosè, mio servo. Non deviare da essa né a destra né a sinistra, perché tu abbia successo in qualunque tua impresa. Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma mèditalo giorno e notte, perché tu cerchi di agire secondo quanto vi è scritto; poiché allora tu porterai a buon fine le tue imprese e avrai successo» (Gs 1,7-8). Se il blocco della collezione dei profeti inizia con la consegna della Legge, allo stesso modo la conclusione del corpo profetico rimanda alla sua osservanza, come scrive la chiusura di Malachia: «Tenete a mente la legge del mio servo Mosè, al quale ordinai sull'Oreb, statuti e norme per tutto Israele». Anche Elia, di cui si preannuncia il ritorno (Ml 3,23-24), dovrà compiere la sua missione lasciata in sospeso, riconducendo il popolo alla tradizione dei padri, cioè alla Legge.
Un’osservazione analoga si potrebbe fare anche per l’inizio della collezione dei profeti posteriori, dove Is 1-2 è fortemente concentrato sul richiamo all’osservanza della Legge e sulla promessa della sua comunicazione all’intera umanità (cfr. Is 2,1-5). In sintesi i profeti attualizzano la Tôrāh denunciando le deviazioni da essa e mostrando le promesse che sono connesse alla sua osservanza fedele.
 
3.3. Il terzo blocco: Ketûbîm
La collezione degli Scritti raccoglie testi di natura molto diversa, che potremmo definire storici, sapienziali e apocalittici. Vale la pena osservare l’apertura di questo blocco, costituita concretamente dal libro dei Salmi. Orbene, il Sal 1 è l’apertura, il portico, di questo libro delle preghiere, ma lo è anche del blocco dei Ketûbîm. Vi viene ritratto l’ideale del credente, che trova motivo di gioia, di forza, di ispirazione per la sua condotta, proprio nella meditazione e nella custodia amorosa della Legge: «Beato l'uomo…che si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte… riusciranno tutte le sue opere» (Sal 1,2ss.).
È evidente il richiamo reciproco tra l’ideale del credente in questo Salmo e la prima pagina di Giosuè, dove vi è l’ideale della guida d’Israele, entrambi illuminati e sorretti dalla Tôrāh.
Anche i Ketûbîm condividono dunque l’ideale programmatico dei profeti: riportare all’osservanza della Legge di Mosè, promettendo, a chi ascolta e si attiene alle sue parole di origine divina, l’esperienza di una vita pienamente riuscita. L’ideale non si manifesta solo nella pagina iniziale, ma percorre la totalità delle opere presenti. Basti ricordare l’apologia del martirio per fedeltà alla Legge del Signore, intessuta dallo scritto apocalittico di Daniele.
Nella collezione dei Ketûbîm il tratto più sorprendente è la sua conclusione. Infatti la Bibbia ebraica si conclude stranamente con i due libri delle Cronache. Questi scritti, secondo un’ottica storiografica, avrebbero avuto collocazione più appropriata dopo i libri di Samuele e dei Re, come del resto nella Bibbia cattolica. Soprattutto sconcerta il fatto che i libri di Esdra e di Neemia, che raccontano, con stile e pensiero fortemente analogo a 1-2 Cronache, il prosieguo della vicenda narrata dal Cronista, siano anteposti appunto a 1-2 Cronache
La ragione di questa collocazione è duplice: le Cronache sono state scritte quando probabilmente il blocco dei Nebi’îm era già chiuso, sostanzialmente canonizzato. La ragione però più significativa sembra essere la seguente: la successione Esdra–Neemia1-2Cronache deve essere risultata determinante per esplicitare una conclusione programmatica per l’intera Bibbia ebraica. La conclusione di Neemia, con il divieto dei matrimoni misti, non costituiva certo la finale adatta, mentre la conclusione di 2Cr poteva essere ottimale per chi leggeva la Bibbia dopo il 70 d.C., anno della distruzione del Tempio da parte dei Romani e della cacciata degli ebrei da Gerusalemme.
2 Cronache 36,22ss. recita così: «Nell'anno primo di Ciro, re di Persia, a compimento della parola del Signore predetta per bocca di Geremia, il Signore suscitò lo spirito di Ciro re di Persia, che fece proclamare per tutto il regno, a voce e per iscritto: “Dice Ciro re di Persia: Il Signore, Dio dei cieli, mi ha consegnato tutti i regni della terra. Egli mi ha comandato di costruirgli un tempio in Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il suo Dio sia con lui e parta!”».La forza dirompente di questo testo, messo come conclusione programmatica, appare chiara. I lettori ebrei, che hanno vissuto il trauma della distruzione di Gerusalemme ad opera dei Romani e che stanno rivivendo una situazione che ricorda quella dell’esilio a Babilonia, riscoprono la fiducia nel Signore e il coraggio derivante dalla conoscenza della sua fedeltà, proprio meditando queste righe che parlano dell’editto di Ciro e del permesso di ritornare nella terra e di ricostruire il Tempio.
Il testo dunque vuole alimentare la speranza di un popolo provato, che deve aprirsi al nuovo ed essere pronto a rivivere quell’esperienza di liberazione che la Tôrāh narrava e che il gruppo degli esuli in Babilonia aveva rivissuto come un secondo Esodo.
È chiaro il carattere programmatico di questa conclusione, quando è letto in prospettiva canonica. Il libro di Cronache si richiama infatti sia alla Tôrāh, sia ai Nebi’îm, da lui sintetizzati nella profezia di Geremia (cfr. 2Cr 36,22), per dimostrare che la storia del popolo di Dio non è finita, che il popolo ha ancora un futuro fondato sul Patto irrevocabile che Dio ha stretto con i padri, Patto alluso qui nella formula di Alleanza espressa con quel “YHWH il suo Dio”. Considerando la forma canonica mostrata dalla Bibbia ebraica, intuiamo la modalità con cui l’ebraismo si avvicina al suo Libro sacro, ricercando continuamente il cuore della rivelazione, individuato esattamente nella relazione di partnership tra il popolo d’Israele (cam ’Yśra’el) e YHWH.
Da notare che negli Scritti sono presenti anche cinque libretti, detti rotoli (meghillôt), qualificati dall’uso liturgico nelle cinque grandi feste ebraiche (Cantico, Ruth, Lamentazioni, Qoelet, Ester).
1)Il Cantico dei Cantici è il rotolo letto nella festa diPesah (Pasqua), cosa che manifesta una precisa convinzione: nella vicenda pasquale che conclude l’Esodo dall’Egitto il Signore ha manifestato il suo grande amore liberando il popolo dalla schiavitù. Solo il linguaggio dell’amore può celebrare il senso profondo della Pasqua!
2) Rut è letto nella festa di Pentecoste o Festa delle Settimane. Dal punto di vista di un calendario agricolo, la festa della prima mietitura avviene 50 giorni dopo la festa di primavera, la Pasqua, ma nella prospettiva della storicizzazione delle feste agricole sistematicamente attuata dalla fede ebraica, la festa delle primizie o dei cinquanta giorni, diventa memoria di quando, cinquanta giorni dopo la Pasqua, Israele aveva incontrato YHWH al Sinai e nel contrarre l’alleanza si era impegnato con Lui ad osservare la Tôràh.
3) Il terzo rotolo è costituito dalle Lamentazioni, libro che nel canone cattolico viene affiancato, a motivo del tono tragico, al profeta Geremia. Israele lo legge nella sua liturgia per il giorno del dolore massimo e spaventoso che è il 9 di Av, memoria della caduta del primo e del secondo Tempio. È il giorno che simbolizza la passione del popolo di Dio ed è come l’antitipo della Pasqua: esprime il lamento del popolo d’Israele, che ha visto in faccia il dolore, così come la Pasqua esprime il cantico della liberazione.
4) Il libro di Qohelet viene letto nella Festa dei Tabernacoli o Capanne (Sukkôt)che cade in autunno.Qohelet è il paradossale libro della gioia; la gioia dell’uomo è come quella del popolo di Israele, custodito e sorretto durante il suo cammino nel deserto: una gioia discreta che si accontenta di poco ed è goduta sotto le ali del timor di Dio.
5) Infine il libro di Esterviene letto in una festa abbastanza “profana”, la festa dei Purim. Se è una festa minore sotto il profilo liturgico, è però molto popolare e gioiosa, un po’ come il carnevale. Purim si svolge il 14 o il 15 di Adar, secondo i luoghi, ed è un annuncio della festa di Pesah, che si celebra il mese successivo negli stessi giorni.
Una riflessione specifica merita il libro di Daniele, che è il più significativo scritto di natura apocalittica presente nel TeNaK.
 
3.4. L’apocalittica: il Primo Testamento avanza verso il suo compimento
La forma canonica della tripartizione del TeNaK non consente di cogliere una tensione verso un compimento. Nondimeno il pensiero ebraico conosce un particolare sviluppo, che è l’apocalittica, anche se questa non ha un posto speciale come tale nel canone. Eppure si può dire che l’apocalittica mostra un movimento interno al canone, movimento che avanza verso il suo “compimento”. Ovviamente la modalità di comprensione di tale compimento varia a seconda della prospettiva assunta, e segnatamente se tale prospettiva si muove all’interno della lettura rabbinica delle Scritture o fa propria la lettura messianico-cristologica, o addirittura assume le prospettive più vicine alla linea apocalittico-enochica.
È indispensabile chiarire subito il rapporto complesso che la tradizione canonica ospitante l’apocalittica ha con il pensiero di un’apocalittica apocrifa. Infatti niente è più complesso della questione dell’apocalittica allorché si legge il Primo Testamento. A rendere difficile il problema è un fatto preciso: accanto agli scritti canonici, da noi definiti apocalittici, vi è una amplissima letteratura giudaica di natura apocalittica, non contenuta negli scritti canonici, e solitamente definita apocrifa (tema su cui torneremo in un successivo capitolo, esplicitamente dedicato agli apocrifi del Primo Testamento). Essa mostra, infatti, differenze radicali, inconciliabili con la tradizione biblica in generale e anche con gli scritti canonici di genere apocalittico.
L’altra questione che complica notevolmente il nostro discorso è se l’apocalittica derivi dalla corrente sapienziale o se sia piuttosto una diversa accentuazione del linguaggio profetico. Mi sembra preferibile una posizione intermedia, la quale, ammettendo peraltro anche un influsso straniero (astrologia, interpretazione dei sogni, ecc.), riconosce nell’apocalittica lo sviluppo del messaggio profetico sul tema del “giorno del Signore” e insieme afferma l’acquisizione in essa di un tratto tipico della Sapienza: l’universalizzazione. L’apocalittica, infatti, non limita mai le sue prospettive al solo popolo eletto, ma colloca il messaggio divino nell'orizzonte più ampio della storia umana e della creazione. 
Venendo all’apocalittica canonica, è opportuno anzitutto chiarire quali siano i testi biblici del Primo Testamento che la ricerca biblica definisce apocalittici. Vi si colloca innanzitutto il libro di Daniele, posto dagli ebrei non tra i Profeti, bensì tra gli Scritti del TeNaK. In esso il lettore è condotto all’estremo limite della storia d’Israele in epoca biblica, e gli viene aperto uno spiraglio sull’imminente fine del mondo.
Vi sono poi vari passi presenti nella letteratura profetica, che rivelano una significativa influenza apocalittica: Gioele; Is 34-35; Is 63,1-6; la grande Apocalisse di Isaia (Is 24-27); Ez 38-39; e tutto il cosiddetto Secondo Zaccaria (=Zc 9-14). Anche alcuni passi dei libri dei Maccabei riflettono l'influenza del pensiero apocalittico (cfr., ad es., 2Mac 6-7). Pure nel Nuovo Testamento ritroveremo passi del genere apocalittico, tra i quali segnaliamo le cosiddette apocalissi sinottiche e il libro della Rivelazione (Apocalisse) di Giovanni.
Tenendo conto di alcune caratteristiche dell’apocalittica non-canonica, oggi vari esegeti si rifiutano di definire apocalittici questi scritti appena citati, mentre altri preferiscono mantenere il termine, con accentuazioni e precisazioni diverse.
Certamente bisogna dire che l’apocalittica canonica si differenzia da quella apocrifa per almeno tre ragioni: anzitutto non s’interessa in modo significativo al problema dell’origine del male; il secondo luogo il dualismo tra bene e male non viene identificato con il dualismo tra materia e spirito; infine le leggi mosaiche non vengono sostituite con le Tavole celesti.
In sostanza, chiarito che l’apocalittica non si riduce ad un genere letterario preciso, si pone allora il problema dell'essenza dell'apocalittica e del contributo che essa, nella sua forma canonica, arreca al messaggio del Primo Testamento.
Ma qual è il cuore del messaggio dell’apocalittica canonica? L’essenza degli scritti apocalittici della tradizione biblica è quella di essere incentrati sull'evento futuro, sull'attesa di un intervento liberatorio da parte di YHWH. È questa la certezza che domina tali scritti: Dio otterrà il trionfo definitivo, attraverso ed oltre un’epoca di pericoli e di persecuzioni, comportanti una grande minaccia per la fede. A servizio di questo messaggio si fanno concorrere i vari tratti caratteristici della letteratura apocalittica, ricorrendo a un accentuato simbolismo (antropologico, animale, cromatico, numerico: cfr., ad es., Dn 12,7. 12; 7,25) e permeando i testi di un’attesa quasi spasmodica del compimento. L’uso baroccheggiante del simbolismo non è, però, fine a se stesso, ma serve per una più efficace comunicazione del messaggio.
Il messaggio ha un suo fulcro nella tematica del ‘giorno del Signore’, già presente nei profeti non apocalittici, ma che riceve qui un ulteriore incremento. Esso è una catastrofe terribile che annienta tutti i fondamenti della vita. L’aspetto propriamente spaventoso sta nel fatto che tale catastrofe viene esattamente conosciuta come il giorno del Signore, giorno vicino, nel quale soltanto in Sion vi sarà salvezza. Ma che cosa consegue da tale attesa del giorno del Signore, che in Daniele coinciderà con la risurrezione dei giusti? Anzitutto ne deriva un appello alla penitenza, alla conversione, e a resistere anche eroicamente di fronte alla persecuzione. Rispetto a questo ‘giorno del Signore’ gli eventi presenti ricevono una qualifica teologica: diventano segno di ciò che sta per accadere. Così, fatti che sembrano immediatamente disastrosi per il popolo di Dio, sono paradossalmente il segno di un’imminente sconfitta delle forze del male e il preannuncio della prossima instaurazione del regno di Dio.
Tutto ciò rende ragione del clima di viva attesa che pervade questi scritti, della tensione verso l’imminente cambiamento, della proiezione verso quel futuro intervento divino che costituirà un vero e proprio rovesciamento della storia universale.
Gli autori apocalittici, a differenza di certa apocalittica non canonica, non insegnano vie di fuga, di rinuncia, ma piuttosto di lotta di fronte al male che grava nella storia. L’apocalittica canonica si presenta perciò come una letteratura del martirio, pensata per spronare alla testimonianza, alla fedeltà alla legge, anche di fronte alle più efferate persecuzioni.
Non occorre però demonizzare tutto, ma trovare vie di discernimento, di lettura degli eventi come posti sotto la conduzione di Dio, che li indirizza con certezza verso un fine di bene pieno, di retribuzione della fedeltà degli eletti. Bisogna allora imparare riconoscere i tempi presenti e il futuro nel loro collegamento con i tempi precedenti, con la storia del popolo di Dio quale è attestata dalla Sacra Scrittura. A differenza dell’apocalittica non canonica, quella biblica vuole mostrare la vitalità della legislazione mosaica e porsi a servizio della genuina tradizione di fede d’Israele e dell'osservanza della Legge sinaitica aiutando i credenti che vivono tempi difficili, di persecuzione o smarrimento.
 
Bibliografia
Sulle problematiche storiche del canone biblico e sul significato teologico cfr.
T. Citrini, Identità della Bibbia. Canone, interpretazione, ispirazione delle Scritture Sacre (= LoB 3.3), Brescia, Editrice Queriniana, 1982.
Le canon de l'Ancien Testament. Sa formation et son histoire, éd. par J. D. Kaestli - O. Wermelinger (= MoBi), Genève, Labor et Fides, 1984.
Ph. R. Davies, Scribes and schools. The canonization of the Hebrew Scriptures (= Library of Ancient Israel), Louisville KY, Westminster John Knox Press, 1998.
Le Canon des Écritures; Études historiques, exégétiques et systématiques, Sous la direction de Ch. Theobald (= LeDiv 140), Paris, Les Éditions du Cerf, 1990.
V. Mannucci, « Il canone delle Scritture », in R. Fabris et alii, Introduzione generale alla Bibbia (= Logos 1), Leumann (TO), ElleDiCi, 1994, 375-95.
A. Niccacci, « Organizzazione canonica della Bibbia ebraica; Tra sintassi e retorica », in « In onore di Mons. Enrico Galbiati nel suo 80° compleanno », Presentazione di G. Ghiberti, RivBib 43 (1995) 9-29.
The Biblical canons, Edited by J. M. Auwers - H. J. de Jonge (= BEThL 163), Leuven, University Press / Uitgeverij Peeters, 2003.
Per il significato dell’articolazione tripartita del TeNaK cfr. la fondamentale opera di teologia biblica di P. Beauchamp, pubblicata nei due volumi: L’uno e l’altro testamento; Saggio di lettura (= BCR 46), Brescia, Paideia Editrice, 1985; L’uno e l’altro testamento. 2. Compiere le Scritture, Introduzione di A. Bertuletti, Traduzione di M. L. Milazzo, Revisione di L. Arrighi - R. Vignolo (= Biblica 1), Milano, Glossa, 2001.
Per una breve sintesi delle idee portanti di L’uno e l’altro testamento cfr. G. Borgonovo et alii, Il testo biblico: per un approccio scolastico (= Scuola di Religione), Torino, SEI, 1990.
Per una posizione che, a differenza della tradizione rabbinica, sostiene che tra Legge e Profeti ci sia una relazione non di subordinazione, ma di pari autorità cfr. S. B. Chapman, The law and the prophets. A study in Old Testament canon formation (= FAT 27), Tübingen, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), 2000.

 

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P. Rota Scalabrini, Il canone del Primo Testamento188.37 KB