L'arte della narrativa biblica: un percorso didattico

 

 

di Luciano Zappella
 
tratto da: Nuova Secondaria, XXVIII/7, marzo 2011, pp. 58.63-68
 
Si sta ormai facendo sempre più strada la convinzione che la Bibbia, nella sua dimensione di codice dell’Occidente, non può essere assente dalla prassi didattica, in quanto “chiave di accesso” alla comprensione delle ricadute letterarie, e, più in generale, artistiche, che ha prodotto: si tratta di un discorso a valle, sul versante della gaadameriana «storia degli effetti» (Wirkungsgeschichte). Altrettanto importante è però un discorso a monte, sul versante delle risorse letterarie presenti nel testo biblico: la Bibbia ha prodotto (grande) letteratura perché è essa stessa (grande) letteratura. La comprensione delle discendenze letterarie non può quindi prescindere da un’analisi delle ascendenze bibliche[1].
Scopo di queste note, forzatamente brevi e dal carattere introduttivo, è di fornire alcuni spunti per un percorso didattico teso a far emergere come la narrazione biblica sia meno ingenua e rozza di quanto sembri a prima vista e come l’analisi narratologica di un passo biblico riservi sorprese non meno piacevoli di quelle offerte dall’analisi, per esempio, di una novella di Boccaccio o di un racconto di Kafka.
 
 
1. La Bibbia: un testo in cerca di lettori
Come altri testi, la Bibbia può essere accostata secondo una prospettiva diacronica (la storia del testo, il suo passato) o secondo una prospettiva sincronica (il testo come si presenta, il suo presente). Nessuno nega l’importanza e i meriti che ha avuto l’approccio storico-critico. Tuttavia, la Bibbia non è soltanto un insieme di testi di cui ricostruire la storia genetica, ma anche una biblioteca narrativa che chiede lettori sempre nuovi.
Sono ormai trascorsi quasi trent’anni da quando Robert Alter e Meir Sternberg hanno applicato i principi della narratologia al testo biblico, con esiti a dir poco sorprendenti[2]. La Bibbia infatti non è un trattato teologico o dogmatico, non è un catechismo o un’enciclica: è un macroracconto fatto di microracconti. La critica narratologica applicata alla Bibbia «è interessata al modo in cui la letteratura biblica è letteratura. Il “che cosa” di un testo (il contenuto) e il “come” (la retorica e la struttura) sono esaminati quali parti di un unico drappo, di un insieme omogeneo. I narratologi sono interessati anzitutto alla letterarietà dei racconti biblici – ossia alle peculiarità che li rendono letteratura; la forma e il contenuto sono di norma considerati un’unità indissolubile»[3].
A differenza dell’analisi semiotica che studia la struttura del testo e dell’analisi retorica che studia la composizione del testo, l’analisi narrativa si occupa della lettura del testo: quest’ultimo non è tanto un documento quanto un monumento, cioè un evento che vive solo grazie al lettore. Ciò vale a maggior ragione per i testi biblici nei quali il “narratore” esige dal suo “lettore” una presa di posizione (pro o contro) pur nel rispetto della sua libertà[4]. Parafrasando Pirandello, si potrebbe quindi dire che la Bibbia è un testo in cerca di lettore. È proprio su questo punto che la narratologia applicata alla Bibbia (o analisi narrativa) può offrire squarci di notevole interesse e porsi come prospettiva didatticamente stimolante.
Ai fini didattici, è preferibile analizzare brevi sezioni, lasciando da parte i macroracconti, che richiederebbero un’analisi più articolata. Forniremo di seguito alcuni esempi di tecniche narrative analizzando due brevi pericopi, non prima però di aver precisato brevemente lo statuto del narratore biblico.
 
 
2. Lo statuto del narratore biblico
Contrariamente a quanto avviene per la maggior parte delle opere narrative, per gli autori dei testi biblici (anche di quelli il cui nome compare all’inizio del testo[5]) è impossibile distinguere l’autore reale (la personalità storica) dall’autore implicito (la personalità letteraria). La maggior parte dei narratori biblici sono anonimi, plurali, voce collettiva. Gli autori dei testi biblici non sono meri esecutori, ma scrittori ispirati di e da una ispirazione; la qualità della loro ispirazione non dipende né da un’ascesi intima né da un personale esercizio letterario-filosofico, ma è permeata da una dimensione comunitaria; la materia della loro ispirazione non è l’enthusiasmòs platonico, ma una Parola che li precede, senza tuttavia comprimere loro libertà artistica.
Sul piano della voce narrante il narratore biblico fa professione di una onniscienza che non disdegna la reticenza.
L’onniscienza del narratore è dispiegata fin dall’inizio: chi legge l’incipitario «racconto dell’inizio» (Genesi 1) non può non chiedersi: come è possibile che il narratore racconti un fatto (la creazione) cui non può aver assistito? Come è possibile che egli possa addirittura assumere il punto di vista di Dio (il narratore vede che Dio vede che quanto ha creato è buono: Gen 1,3 e passim)? Come può una narrazione così “pertinente” essere svolta da un narratore tanto “impertinente”? Ciò avviene perché chi narra l’inizio della creazione crea anche l’inizio della narrazione. Dio crea il mondo e crea il narratore che narra la creazione; la narrazione della creazione coincide con la creazione della narrazione. Nota opportunamente J. Fokkelman: «in religione e in teologia gli esseri mortali, compresi gli scrittori, sono soggetti a Dio, poiché l’uomo è stato creato da Dio. Ma (…) quando si tratta di raccontare una storia, la situazione è radicalmente diversa. Nei testi narrativi Dio è un personaggio, cioè una creazione di colui che scrive e racconta. Dio è una costruzione linguistica, Abramo è uno strumento linguistico, Davide è un ritratto che consiste esclusivamente in segni linguistici. Dio può agire soltanto se l’autore è disposto a parlarci di lui. È l’autore a decidere se Dio ha il permesso di dire qualcosa nel racconto e, in tal caso, con quale frequenza e quantità di parole»[6].
A differenza di quello omerico (che mette tutto in primo piano), il narratore biblico sa anche essere reticente e sobrio. Come sottolinea Alter, la narrazione biblica è caratterizzata da «diverse forme di oscurità illuminate da fasci di luce intensi ma ridotti, da barlumi spettrali, da improvvisi bagliori intermittenti», tanto che il lettore è costretto «ad arrivare al personaggio e al motivo (…) tramite un processo di inferenza, a partire da dati frammentari, spesso con momenti cruciali dell’esposizione narrativa strategicamente sottaciuti per essere proposti più avanti nella trama, e ciò conduce a prospettive molteplici e talvolta persino oscillanti sui personaggi. C’è in altre parole un mistero presente nel personaggio così come lo concepiscono gli scrittori biblici, un mistero che essi esprimono attraverso i loro tipici metodi di presentazione»[7].
È del tutto evidente che la reticenza apre spazi alla collaborazione interpretativa del lettore. Moltiplicando i silenzi, le ellissi, gli spazi bianchi[8], la narrativa biblica riproduce la stessa dinamica che sta alla base della scrittura ebraica, la quale presenta solo le consonanti, mentre le vocali sono affidate all’interpretazione. Essendo la Bibbia la narrazione del patto tra Dio e gli uomini, il narratore istituisce un patto di lettura con il suo lettore.
 
 
3. La verità della finzione: il lettore implicato e il patto di lettura
Come è noto, uno dei generi letterari più usati nei racconti biblici è la parabola (in ebraico mašal), tramite la quale si tiene insieme (secondo etimologia, da para-ballō, «gettare accanto») il momento realistico con quello simbolico. Per quanto tipiche dell’insegnamento di Gesù, le parabole non sono assenti nell’Antico Testamento. Ne prenderemo in considerazione una particolarmente significativa: 2Samuele 12,1-15.
 
2 Samuele 12,1-15.  1Il Signore mandò il profeta Natan a Davide, e Natan andò da lui e gli disse: «Due uomini erano nella stessa città, uno ricco e l’altro povero. 2Il ricco aveva bestiame minuto e grosso in gran numero, 3mentre il povero non aveva nulla, se non una sola pecorella piccina, che egli aveva comprato. Essa era vissuta e cresciuta insieme con lui e con i figli, mangiando del suo pane, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno. Era per lui come una figlia. 4Un viandante arrivò dall’uomo ricco e questi, evitando di prendere dal suo bestiame minuto e grosso quanto era da servire al viaggiatore che era venuto da lui, prese la pecorella di quell’uomo povero e la servì all’uomo che era venuto da lui». 5Davide si adirò contro quell’uomo e disse a Natan: «Per la vita del Signore, chi ha fatto questo è degno di morte. 6Pagherà quattro volte il valore della pecora, per aver fatto una tal cosa e non averla evitata». 7Allora Natan disse a Davide: «Tu sei quell’uomo! Così dice il Signore, Dio d’Israele: “Io ti ho unto re d’Israele e ti ho liberato dalle mani di Saul, 8ti ho dato la casa del tuo padrone e ho messo nelle tue braccia le donne del tuo padrone, ti ho dato la casa d’Israele e di Giuda e, se questo fosse troppo poco, io vi aggiungerei anche altro. 9Perché dunque hai disprezzato la parola del Signore, facendo ciò che è male ai suoi occhi? Tu hai colpito di spada Uria l’Ittita, hai preso in moglie la moglie sua e lo hai ucciso con la spada degli Ammoniti. 10Ebbene, la spada non si allontanerà mai dalla tua casa, poiché tu mi hai disprezzato e hai preso in moglie la moglie di Uria l’Ittita”. 11Così dice il Signore: “Ecco, io sto per suscitare contro di te il male dalla tua stessa casa; prenderò le tue mogli sotto i tuoi occhi per darle a un altro, che giacerà con loro alla luce di questo sole. 12Poiché tu l’hai fatto in segreto, ma io farò questo davanti a tutto Israele e alla luce del sole”». 13Allora Davide disse a Natan: «Ho peccato contro il Signore!». Natan rispose a Davide: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai. 14Tuttavia, poiché con quest’azione tu hai insultato il Signore, il figlio che ti è nato dovrà morire». 15Natan tornò a casa.
 
L’analisi della sequenza deve essere preceduta dalla lettura dell’antefatto (2Samuele 11): dopo aver commesso adulterio con Betsabea ed essere stato il mandante dell’omicidio di suo marito Uria, Davide viene condotto a riconoscere la propria colpa (l’immoralità della prepotenza) non tramite una predica moralistica, ma tramite un racconto di fiction. Il profeta Natan, nella sua qualità di narratore di II grado eterodiegetico[9], costruisce un racconto performativo, mirato cioè a condurre Davide (il narratario) – e, con lui, il lettore implicito – verso la consapevolezza delle proprie azioni.
La chiave di accesso alla comprensione della parabola è rappresentata dalla considerazione del narratore di I grado (onnisciente): «Ma ciò che Davide aveva fatto era male agli occhi del Signore» (1Sam 11,27c). Si tratta di una affermazione decisiva in quanto è il peritesto[10] che, conferendo al lettore un surplus di conoscenza rispetto a Davide, fonda il patto di lettura: il profeta Natan sa ciò che Davide ha commesso, il re Davide sa ciò che ha commesso ma non sa che Natan sa, il lettore sa ciò che Davide ha commesso (2Sam 11) e sa che Dio è adirato con Davide (v. 11,27c).
La chiave di volta è invece costituita dalla affermazione di Natan «Tu sei quell’uomo!» («attà ha-iš!»: v. 7a). La frase, tanto essenziale quanto inequivocabile, cade come un colpo di mannaia a separare la finzione dalla realtà. Non si dimentichi che Davide è stato chiamato ad esprimere un giudizio nell’ambito della finzione e che ora tale giudizio si ritorce contro di lui facendogli prendere coscienza della realtà. Nel cap. 11 Davide, nell’intento di salvare le apparenze, mette in atto una strategia di finzione che il racconto di Natan, con la sua strategia di finzione (costruzione del racconto), finisce per smascherare. La trama del racconto (la sua costruzione) serve a smascherare la trama ordita da Davide. Ne consegue che, nella vicenda (finta) narrata da Natan, Davide è costretto a rileggere la propria vicenda (vera).
Tale coinvolgimento riguarda però anche il lettore: dotato com’è di un grado di conoscenza superiore, potrebbe limitarsi a “gustarsi” il momento, fortemente ironico, in cui Davide pronuncia la propria condanna e prendersi, per così dire, gioco di un potente che pensava di farla franca. Sennonché, quel «Tu sei quell’uomo!» instilla nel lettore il sospetto che il profeta, uscito dalla finzione, stia parlando anche a e di lui e che lo spinga a chiedersi se la trama del racconto non corrisponda per caso anche alla trama della sua vita, come a quella di Davide. Se infatti Davide non ha potuto fare a meno di identificarsi con l’uomo ricco della finzione narrativa, perché non dovrebbe farlo anche il lettore? «La narrazione gli propone di interpretare la trama del testo nella trama della propria esistenza […] In questo incontro tra la trama del racconto e quella della propria vita il testo offre al lettore una possibilità di modificare la propria trama personale; in una parola, gli offre di diventare un altro»[11].
 
 
4. Questione di punti di vista: sapere e non sapere
 
1Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». 2Riprese: «Su, prendi tuo figlio, il tuo diletto che tu ami, Isacco, e va' nel territorio di Moria, e offrilo ivi in olocausto su di un monte che io ti dirò!».3Abramo si alzò di mattino per tempo, sellò il suo asino, prese con sé due suoi servi ed Isacco suo figlio, spaccò la legna per l'olocausto e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva detto. 4Al terzo giorno Abramo, alzando gli occhi, vide da lontano il luogo. 5Allora disse ai suoi due servi: «Sedetevi e dimorate qui, con l'asino; io e il ragazzo andremo fin là, faremo adorazione e poi ritorneremo da voi». 6Abramo prese la legna dell'olocausto e la caricò su Isacco, suo figlio; egli prese in mano il fuoco e il coltello e s'incamminarono tutt'e due insieme.7Isacco si rivolse a suo padre Abramo e disse: «Padre mio!». Rispose: «Eccomi, figlio mio!». Riprese: «Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov'è l'agnello per l'olocausto?». 8Rispose Abramo: «Dio si provvederà da sé l'agnello per l'olocausto, figlio mio!». E proseguirono tutt'e due insieme.9Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva detto e ivi Abramo edificò l'altare, vi depose la legna, legò Isacco suo figlio e lo depose sull'altare sopra la legna. 10Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per scannare il suo figliolo.11Ma l'angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». 12Riprese: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che rispetti Dio e non mi hai risparmiato il tuo figliolo, l'unico tuo!». 13Allora Abramo alzò gli occhi e guardò; ed ecco: un ariete ardente, ghermito dal fuoco, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l'ariete e l'offrì in olocausto al posto del suo figliolo. 14Abramo chiamò il nome del santuario «il Signore provvede», onde oggi si dice: «Sul monte il Signore provvede». 15Poi l'angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta 16e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato il tuo figliolo, l'unico tuo, 17io ti benedirò con ogni benedizione e moltiplicherò assai la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia ch'è sul lido del mare; la tua discendenza s'impadronirà della porta dei suoi nemici 18e si diranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, in compenso del fatto che tu hai ubbidito alla mia voce».19Poi Abramo tornò dai suoi servi, e insieme si misero in cammino verso Bersabea; e Abramo abitò a Bersabea.
 
L’episodio della legatura di Isacco[12] (Genesi 22,1-19) presenta un duplice itinerario: quello di Abramo e quello del lettore. In entrambi il filo conduttore è la conoscenza: della volontà di Dio per Abramo, della reazione di Abramo e dell’esito finale per il lettore. Lettore che, anche in questo caso, parte in vantaggio: con il peritesto di Gen. 22,1a («Dio mise alla prova Abramo»), il narratore gli mette in chiaro l’intenzione divina. È come se il lettore si sedesse in poltrona ad osservare le reazioni di Abramo.
Come nel caso di Davide e Natan, ad essere in gioco è un conflitto di saperi: il lettore sa ciò che Abramo non sa ma non può dirglielo, Dio sa ma non può dire niente sino alla fine, mentre lo stesso Abramo conosce lo scopo del viaggio ma non può dirlo ad Isacco (e il lettore non può fare e meno di chiedersi fino a che punto e soprattutto se Abramo riuscirà a mantenere il segreto con il figlio).
La costruzione del racconto è quella tipica del dramma (in termini cinematografici si potrebbe parlare di “presa diretta”). Il narratore onnisciente di Genesi 1 ha lasciato il posto ad un narratore reticente che adotta una focalizzazione esterna: costruisce cioè un racconto in cui in cui nulla dice circa i sentimenti di Abramo e di Isacco (va qui in scena il dramma della comunicazione). È chiaro che si tratta di una strategia narrativa: tutto il racconto è punteggiato da un continuo rimando tra parole e silenzi, tra simulazione e dissimulazione, tra svelare e rivelare.
La laconicità del narratore[13] serve non solo a sottolineare il dramma, ma anche a dilatare lo spazio del lettore il quale non può fare meno di riempire le ellissi narrative, chiedendosi: cosa fa Abramo tra il ricevimento dell’ordine e la partenza? Cosa si dicono padre e figlio nei tre giorni di viaggio? Cosa pensa Isacco? Quando Dio svelerà il tutto? Il narratore esige dal lettore un rapporto di empatia con i personaggi del dramma. Si potrebbe dire che la narrazione è spietata per suscitare la pietas del lettore. Certo, il lettore sa tutto in anticipo (22,1a), ma non sa, se non per inferenza, cosa prova Abramo; le sue domande nel corso della narrazione sono in certo senso riassunte dalle uniche parole pronunciate da Isacco che non a caso contengono una domanda, anzi la domanda per antonomasia: «Dov’è l’agnello per l’olocausto?» (22,7c).
Due ultime considerazioni appena accennate: si noti il raffinato gioco tra il tempo della storia e il tempo del racconto (vi è un progressivo rallentamento) e si noti pure l’esito della vicenda basato sulle categorie aristoteliche della peripeteia (rovesciamento della situazione) e della anagnorisis (passaggio dall’ignoranza alla conoscenza)[14].
 
 
Conclusione
«Un maestro della scuola di Rabbì Ishmael ha insegnato: “Non è forse così la mia parola: come il fuoco, oracolo del Signore, e come un martello che frantuma la roccia?” (Ger. 23,29). Come questo martello sprigiona molte scintille, così pure un solo passo scritturistico dà luogo a dei sensi molteplici»[15]. Ciò che i maestri dell’interpretazione infinita dicono della Scrittura non è forse valido anche per la letteratura? E la Scrittura non è forse la grande storia di un Dio che non ha paura di avere delle storie con gli esseri umani?


[1] La madre di tutte le intuizioni relativamente alle ascendenze bibliche risale a Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino, 2000 (or. ted. 1946), il quale individua nella Bibbia una delle fonti del realismo della letteratura contemporanea. Segnalo in particolare i primi due saggi: La cicatrice di Ulisse e Fortunata.
[2] R. Alter, L’arte della narrativa biblica, Queriniana, Brescia 1990 (or. ingl. 1981); M. Sternberg, The Poetics of Biblical Narrative. Ideological Literature and the Drama of Reading, Indiana University Press, Bloomington 1985.
[3] J.L. Resseguie, Narratologia del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 2008, p. 16. Segnalo due ottimi manuali: D. Marguerat – Y. Bourquin, Per leggere i racconti biblici. Iniziazione all’analisi narrativa, Borla, Roma 2001 (or. franc. 1998, 20022) e J.P. Fokkelman, Come leggere un racconto biblico: guida pratica alla narrativa biblica, EDB, Bologna 2003. Si veda anche il sito www.bicudi.net.
[4] «Il testo, rimasto orfano di suo padre, l’autore, diventa il figlio adottivo della comunità dei lettori»: P. Ricœur, «Éloge de la lecture et de l’écriture», in: Etudes théologiques et religieuses 64 (1989), pp. 395-405 (cit. a p. 403). Cfr. anche U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Bompiani, Milano 1979.
[5] Quando, per esempio, si parla di «libro di Giosuè», «libro di Giobbe» o «libro di Ester», il di è complemento di argomento (libro che parla di…), non una attribuzione autoriale (libro scritto da…).
[6] J.P. Fokkelman, cit., pp. 62-63.
[7] Alter, cit., pp. 154-155.
[8] Un esempio per tutti: «Il Signore guardò con favore Abele e la sua offerta, ma non guardò con favore Caino e la sua offerta» (Gen 4,4-5). Il narratore si guarda bene dallo specificare il motivo del non gradimento e questo silenzio innesca il processo dell’interpretazione.
[9] Il narratore di II grado narra all’interno di un’altra narrazione (affidata al narratore di I grado); il narratore è eterodiegetico quando è assente dalla storia da lui raccontata.
[10] Il peritesto è l’insieme degli enunciati che precedono (frontespizio, titolo, prefazione…) o seguono (conclusione, appendici…) un testo e che contengono indicazioni per la lettura.
[11] D. Marguerat – Y. Bourquin, cit., p. 150. Come sottolinea acutamente A. Wénin, «la parabola non mostra la realtà di Davide, ma mostra la verità della sua realtà […] L’intento non è di raccontare la storia, ma di proporre al lettore, tramite una storia, una pratica di verità in vista della trasformazione del suo essere grazie al potere che la finzione ha di far venire alla luce ciò che è spesso nascosto nell’opacità di ogni realtà umana» (A. Wénin, David et l’histoire de Natan (2 Samuel 12,1-7), ou: le lecteur et la fiction prophétique du récit biblique, in: D. Marguerat (cur.), La Bible en récit. L’exégèse biblique à l’heure du lecteur, Labor et Fides, Genève 2003, pp. 163-164).
[12] Rinunciamo alla definizione più comune (“il sacrificio di Isacco”) in quanto del tutto fuorviante.
[13] Già messa in risalto perfettamente da Auerbach, cit., pp. 3-29.
[14] Aristotele, Poetica 1452a 15-1452b 5.
[15] Talmud Babilonese, Sanhedrin 34a.

 

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